sabato, 23 Novembre 2024
Bob Marley: One Love, la recensione
Bob Marley: One Love dimostra di aver appreso una lezione fondamentale dai migliori biopic degli ultimi anni: il ritratto di un personaggio storico è molto più efficace quando si focalizza su un momento circoscritto, facendone la sineddoche della sua intera vita. Nel caso di Marley, il regista Reinaldo Marcus Green sceglie di raccontare gli ultimi cinque anni del musicista giamaicano, concentrandosi soprattutto sulla composizione dell’album Exodus e sull’evento One Love Peace Concert; ovvero, quella fase in cui il profeta del reggae si sublima in “mito”, imponendo la sua eredità nell’immaginario collettivo.
È il 1976, e Marley (Kingsley Ben-Adir) vive a Kingston con la moglie Rita (Lashana Lynch) e i figli. Attorno a loro c’è un paese martoriato dai conflitti interni: il Partito Laburista Giamaicano e il Partito Nazionale del Popolo si fanno la guerra pagando gangster locali per aumentare il proprio potere, mentre Marley – ufficialmente neutrale – prepara un concerto in favore della pace. Quando un gruppo di sicari prende d’assalto la sua casa durante le prove, il cantante, sua moglie e alcuni membri dello staff rimangono feriti. Marley riesce a esibirsi lo stesso, ma decide di trasferirsi a Londra per non radicalizzare la situazione. È qui che incide Exodus e riflette sulle sue mosse successive: Marley pianifica infatti una serie concerti per trasmettere il suo messaggio di fratellanza universale, insistendo con il manager per organizzare delle esibizioni anche in Africa. Durante la sua permanenza a Londra, però, scopre di essere affetto dalla malattia che lo porterà alla morte nel 1981.
Quei cinque anni – e soprattutto il biennio 1976-1978 – portano l’artista giamaicano a diventare non solo l’incarnazione stessa del reggae, ma un simbolo della lotta contro ogni forma di oppressione sociale. Non è un caso che Bob Marley: One Love dedichi tanto spazio alla fede rastafariana: interpretando i valori fondamentali di questo credo, Marley mette in musica il suo grido di libertà e di lotta al colonialismo, che parte dai popoli africani (era un sostenitore del panafricanismo) e si espande fino a coinvolgere tutti gli oppressi del mondo. Il lato spirituale e politico della sua opera gioca un ruolo cruciale nel biopic, che resta in bilico tra la santificazione del musicista e la sua umanizzazione, pur tendendo maggiormente verso la prima. È anche vero, però, che la sceneggiatura di Terence Winter, Frank E. Flowers, Zach Baylin e Green non nasconde né i contrasti con Rita né i suoi limiti come marito, all’insegna di un ritratto abbastanza sfaccettato. Al contempo, ci rammenta che Bob Marley è figlio e vittima di quello stesso imperialismo che ha giurato di combattere, come si evince dal rifiuto del padre (bianco).
Certo, il film non esplora il contesto storico-politico della Giamaica, né l’ambiguità di quell’attentato che, stando ad alcune testimonianze successive, potrebbe aver coinvolto persino la CIA. Ovviamente Green sceglie di andare sul sicuro: niente teorie, solo fatti. Anche perché la figura di Marley non perde mai centralità, e anzi viene approfondita tramite brevi flashback sulla sua infanzia e adolescenza. Alla ricerca di un equilibrio tra l’uomo e l’icona, Bob Marley: One Love mette in luce l’eccezionalità di un individuo capace di comporre brani immortali, che innescano il ricordo anche quando ne cogliamo solo poche note sullo sfondo. Eppure, le parole hanno paradossalmente la meglio sulla musica, nel senso che i dialoghi sottolineano la capacità del cantante di dare voce alle sue idee con frasi memorabili (e Kingsley Ben-Adir fa un gran lavoro sull’accento giamaicano, in lingua originale). Una di queste sentenze è davvero emblematica: «A volte il messaggero deve diventare il messaggio». Ecco, One Love narra la parabola di un uomo che, nel farsi mito, è divenuto inscindibile dai messaggi che promulgava. O, in altre parole, dalla sua stessa arte.
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