Qui rido io, maschera è vita: la recensione del film di Mario Martone da Venezia 78

Qui rido io

La commedia dell’arte è un retaggio di maschere, poi ereditato dal teatro popolare e dal varietà. All’inizio di Qui rido io, Eduardo Scarpetta si vanta di aver sostituito Pulcinella nel cuore dei napoletani con un personaggio di sua creazione, Felice Sciosciammocca: dopo anni passati a interpretare la celebre maschera partenopea, il grande attore sente di aver raggiunto la piena indipendenza (e la piena realizzazione personale) con qualcosa di autonomo, frutto del suo ingegno. La chiave del film di Mario Martone è proprio qui. Raccontando un passaggio cruciale nella vita di Scarpetta, il regista napoletano mette in scena una famiglia prigioniera del suo capocomico/patriarca, dove la vera libertà esiste solo sul palcoscenico.

Martone sposta quindi l’attenzione dai leggendari fratelli De Filippo (il suo film precedente era tratto da una pièce di Eduardo) al padre che non li riconobbe mai, in lotta con l’accusa di plagio per aver parodiato La figlia di Iorio di Gabriele D’Annunzio, pur avendo ricevuto il permesso verbale del Vate. Attorno a lui ruota una famiglia numerosa e caotica, con molti figli avuti da tre donne diverse. Le repliche di Miseria e nobiltà continuano ad avere un grande successo, ma Scarpetta lotta per ricevere un riconoscimento dalla cultura “alta”, mentre i figli – in primis Vincenzo, il maggiore – cercano di uscire dalla sua ombra.

Libertà sul palcoscenico, per l’appunto, ma solo attraverso progetti individuali: se Vincenzo cerca fortuna nel cinematografo o in altre compagnie teatrali, il piccolo Eduardo comincia a scrivere le sue commedie, che in futuro lo porteranno a diventare molto più famoso e acclamato del genitore. Martone mette in scena un mondo ricchissimo, vibrante di voci e corpi in movimento, affidandosi a una regia elegante – spesso invisibile – che valorizza le performance del cast. Il mattatore è ovviamente Toni Servillo, debordante nella sua interpretazione di un artista brillante ma egocentrico, generoso ma autoritario, che vede in Felice Sciosciammocca la sua eredità per i posteri.

Servillo è eccezionale nella sua gamma espressiva, ma questo lo sapevamo già. Il valore aggiunto sta nella sua repentina trasformazione in “maschera”, tanto sul palcoscenico quanto in tribunale. Sì, perché Scarpetta capisce di avere nella dialettica attoriale la sua più grande risorsa: quando si trasfigura in personaggio, in maschera, nessuno può resistergli. Qui rido io è proprio un film sulle maschere che Scarpetta indossa o rifiuta, compresa quella immortale di Pulcinella, nonostante i suoi tentativi di seppellirla. Martone è abile a evocarle in scene stranianti (l’incontro con D’Annunzio) o apertamente oniriche (la visione del “doppio”), impostando un dialogo continuo tra arte e vita, tra palcoscenico e retropalco. Senza mai dimenticare ciò che succede sulla soglia di quei due mondi.

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