America Latina – La recensione del film dei Fratelli D’Innocenzo da Venezia 78

America Latina

Favolacce ha consacrato lo sguardo provocatorio dei Fratelli D’Innocenzo sulla provincia romana, e in particolare su quel ceto medio che nasconde vizi e frustrazioni dietro una facciata di rispettabilità. Ebbene, America Latina porta il discorso sul piano del singolo individuo, rinunciando alla narrazione corale per ragioni che diventano ovvie una volta scoperta la natura del film.

Proprio in virtù delle sue caratteristiche, svelare troppi dettagli sulla trama sarebbe dannoso. Vi basti sapere che Elio Germano interpreta Massimo Sisti, dentista che vive con la moglie e due figlie in una curiosa villetta di Latina. La sua esistenza è tranquilla, regolare: è garbato sul lavoro, ama la sua famiglia, e passa qualche serata a bere con gli amici. Una scoperta inquietante, però, cambia tutto. Massimo si ritrova quindi intrappolato in una spirale inspiegabile, fatta di sospetti e paranoie crescenti. Sono i suoi cari a nascondere qualcosa, oppure la sua mente? America Latina rientra infatti nei canoni del mind game movie, sottogenere che trascina il pubblico nel mondo del protagonista, obbligandolo a identificarsi con una sorta di io narrante (rigorosamente inaffidabile) a focalizzazione interna.

Ovviamente i D’Innocenzo lo immergono nel loro contesto favorito, riproponendo un cinema che sfiora gli esempi di Yorgos Lanthimos e Ulrich Seidl, con forse un pizzico di Haneke. Il risultato è una sorta di horror esistenziale, dove i registi alternano inquadrature fisse che raggelano la scena (come il dialogo tra Massimo e la moglie dall’esterno della finestra) e tagli strettissimi che scavano nel dramma del protagonista. La realtà che vediamo è filtrata da lui, ma il giochino si dilata troppo a lungo: non esiste un vero intreccio, e molte scene sono solo riempitive. L’oscura epopea di Massimo sfocia così nella rivelazione più ovvia, poiché America Latina ricicla idee vetuste dai modelli internazionali (anche quelli più marcatamente “di genere”), senza rielaborarle sul piano dell’identità culturale. Più che altro, il film si crogiola nel tenue mistero di un uomo confuso, che rimette in discussione la sua vita di fronte all’inspiegabile.

Senza dubbio l’alienazione è percepibile, ed Elio Germano ce la mette davvero tutta per tenere in piedi l’operazione, ma non è supportato da una sceneggiatura adeguata. Se la scrittura è frettolosa e poco ispirata, ben più validi sono i contributi tecnici: lo scenografo Roberto De Angelis sfrutta al meglio l’artificiosa villetta in cui vive Massimo, mentre la fotografia di Paolo Carnera spazia con scioltezza dal naturalismo ai vaneggiamenti allucinatori. Tutto il resto è però troppo vacuo per convincere appieno. Laddove Favolacce restituiva un disagio straniante e ben contestualizzato, America Latina si perde in momenti di compiaciuto delirio, senza mai sorprendere o spiazzare. La festa è finita, e il film è arrivato tardi.

Leggi su ScreenWEEK.it