venerdì, 22 Novembre 2024
Phil Grabsky: «Racconto i quadri di Hopper come fossero film gialli»
I dipinti del celebre pittore americano sono «inquadrature perfette in stile Hollywood» che «fotografano un’America di solitudine e disincanto» spiega a Panorama il regista Phil Grabsky, che ha trasformato vita e opere dell’artista in un lungometraggio in arrivo nelle sale.
C’è qualcosa di affascinante e respingente al tempo stesso ne I nottambuli, il quadro più celebre di Edward Hopper (1882-1967), considerato tra i più influenti pittori americani di sempre: due uomini e una donna siedono in un diner, a notte fonda, e non sembrano particolarmente inclini a fare conversazione, mentre il barista è intento a preparare qualcosa. Lei mangia un sandwich e i due uomini sembrano assorti nei propri pensieri: uno visibile, di bell’aspetto, l’altro di spalle, non è riconoscibile, e potrebbe anche essere un malavitoso. D’altra parte che ci fanno lì mentre tutta la città dorme, illuminati solo dai neon del locale? Un bar peraltro piuttosto strano, perché non ha apparenti punti di entrata o di uscita, e i quattro sembrano quasi in trappola, perché non ci sono porte per entrare o uscire dal locale. La grande vetrina sembra non avere vetri e anche se gli sgabelli vuoti invitano chi guarda ad avvicinarsi e sedersi, siamo poi sicuri che sia proprio una buona idea? Questo senso di mistero, che spinge lo spettatore a interrogarsi su cosa sia accaduto prima e cosa accadrà dopo in questo che pare un fotogramma cinematografico, è al centro dell’indagine di Hopper, una storia d’amore americana, documentario di Phil Grabsky che sarà al cinema il 9 e 10 aprile: un film che vuole analizzare i dipinti che hanno descritto l’America, lasciando ammaliate e interdette generazioni di spettatori, attraverso la lente della biografia, fin da quando il giovane Edward si trasferì a Parigi all’inizio del Novecento in un convitto religioso sotto il controllo degli amici della madre, e anziché frequentare il Moulin Rouge con gli altri artisti bohémien, se ne andava in giro a dipingere scorci di strade, ispirandosi agli impressionisti e avviandosi, nell’attesa di diventare pittore, verso un lavoro che detestava, ovvero quello di illustratore.
«Probabile che molte persone non conoscano il nome di Edward Hopper, ma chiunque ha visto almeno una volta I nottambuli e ne è rimasto colpito», commenta il regista incontrato da Panorama. «E anch’io ho cercato di scoprire meglio questo artista straordinario, di cui in realtà mi sono reso conto che conoscevo pochi elementi biografici. Così, attraverso una ricerca più approfondita ho trovato le uniche due interviste che ha mai rilasciato in carriera e che sono incluse nel film, oltre a citare i diari di sua moglie». Le parole di Hopper e della consorte Josephine Nivison, capace di rinunciare alla proprie aspirazioni di pittrice per mettersi al servizio del marito, rivelano molto della loro relazione, che è uno dei cardini del film, al punto che, come dice Grabsky, il titolo fa riferimento non solo all’amore per l’America di questo genio, ma anche alla turbolenta storia romantica tra i due: «È noto come lui si comportasse in modo veramente spiacevole con la moglie, a tratti sfociando nell’abuso, e come i due litigassero continuamente, anche se poi condividevano la passione per il teatro e l’arte, e lei trattava i dipinti di lui come fossero figli da custodire gelosamente. Lei era estroversa, e non smetteva mai di parlare, mentre lui introverso, non voleva frequentare i vicini di casa e dimostrava di non avere alcun interesse per il punto di vista degli altri (tanto che il film rilegge a posteriori la personalità di Hopper come quella di una persona clinicamente depressa, ndr)».
Certo è che una volta che Jo, gelosissima al punto da essere la sua unica modella, lo lanciò facendolo conoscere ai galleristi americani, nel periodo in cui Edward non vendeva un dipinto da dieci anni, Hopper spiccò il volo definitivamente. Attraverso interviste a vari esperti d’arte e curatori di musei, tra cui il Whitney Museum di New York, lo spettatore viene introdotto all’analisi di alcuni dei suoi quadri più significativi, in cui ad esempio si percepisce un evidente scarto tra la realtà di una metropoli come la Grande Mela, attraversata da fiumi di gente e segnata dalle grandi innovazioni tecnologiche dell’epoca, e i quadri, che fotografano, attraverso una ricerca sulla luce affinata nel periodo parigino, una città spoglia di persone, che enfatizza l’isolamento e la solitudine come cardini della condizione umana.
«Ogni quadro è come un giallo» spiega Grabsky. «C’è sempre un elemento fuori posto, oppure bizzarro che lascia chi guarda interdetto: un vestito troppo stretto, una maniglia che manca, un pezzo di arredamento fuori scala, un’allusione sessuale che forse vuol dire qualcos’altro». Come nel celebre Interno d’estate, in cui una donna seminuda accasciata vicino al letto e forse vittima di una violenza, sembra alludere alla sua infelice relazione di gioventù con Alta Hilsdale, che lo rifiutò per un decennio. Certo è che, se le sue tele evocano un dialogo con le proprie inquietudini, sono anche frutto di un dialogo costante con il cinema, che Hopper amava molto: «Da regista è incredibile vedere come le sue inquadrature fossero perfette» conclude Phil Grabsky. «Frutto certo del suo amore per la Settima arte, che a propria volta lo ha ricambiato grandemente. In molti lo hanno amato, da Wenders a Lynch e Hitchcock, che dovendo realizzare la grande casa in stile gotico per Psycho, chiese al suo scenografo di ispirarsi proprio ai quadri di Hopper».