Francesca Comencini, lettera d’amore al padre che mi ha salvata

(dell’inviata Alessandra Magliaro) Un padre e una figlia, la
crescita, gli inciampi, il dialogo, la tossicodipendenza, la
generazione perduta, l’ascolto, l’abbraccio, la fragilità di un
genitore e quello di una ragazza che rischia di perdersi, il
rigore, la passione, il senso di fallimento: c’è un mondo dentro
Il tempo che ci vuole di Francesca Comencini, “una lettera
d’amore per mio padre Luigi e per il cinema”. Il film, oggi
fuori concorso a Venezia 81, è un confronto serrato, coraggioso,
diretto, affettuoso tra Francesca e Luigi, Romana Maggiora
Vergano e Fabrizio Gifuni.
    Il tempo che ci vuole, in sala dal 26 settembre con 01, oggi
ha fatto commuovere Venezia coinvolgendo chi ha vissuto quegli
anni ’70, ’80 ma anche le giovani generazioni. Parla di “teatro
della memoria” Francesca Comencini, “ho vissuto tutta la vita
come un teatro sempre aperto nella mia testa. Un cono di luce si
andava a mettere su momenti reali, ma anche su quelli sognati,
ricordi sfocati che sono diventati la materia del film”. Ma “non
è un film sul mio privato, perlomeno non solo questo, l’ho
pensato e spero arrivi – dice all’ANSA la regista – come un film
che da questa storia personale parli a tutti, raggiunga un
carattere di universalità raccontando quel rapporto fondamentale
per qualunque donna che è la relazione padre-figlia”.
    C’è l’infanzia magica, perfetta. Il padre grande regista,
uomo d’altri tempi, gentile, misurato, onesto, sta preparando
Pinocchio e la osserva, le parla composto mentre lei ascolta,
gioca, disegna, si diverte sul set come il personaggio di una
favola. La bambina diventa una ragazza che cresce confusa, con
una strada non chiara, sentendosi non all’altezza delle
aspettative del padre e si perde nella tossicodipendenza. Lei
nega, lo maschera in casa, ma fuori è come altri di quella
generazione spazzati via dalla droga, uno dei tanti traumi di
quell’epoca oltre al terrorismo. Il padre è disperato, non sa
come gestire, chiede la verità, riceve bugie, poi decide di non
far finta di niente e la porta via a Parigi promettendole di non
lasciarla neppure per un momento. È dura ma ci si può salvare e
il cinema, palestra di una vita, è un nuovo inizio.
    “Sarebbe piaciuto a mio padre? È una domanda paralizzante,
spero di sì, di sicuro è omaggio alla persona che mi ha
salvata”, risponde commossa. “Tutta la vita ho cercato di non
essere percepita come ‘figlia di’ ma ora, passato ‘il tempo che
ci vuole’, superati i 60 anni, mi permetto il lusso di dire che
sono sua figlia e sono abbastanza vecchia e brava per fare il
film che da una vita tenevo dentro. L’ho messo a fuoco durante
il lockdown quando tutti siamo stati attraversati dall’angoscia
di perdere le cose e inciampavamo nei ricordi. Quel periodo mi
ha permesso di capire anche l’amore per il cinema”.
    Nel film ci sono solo loro due, mentre la famiglia Comencini
è una grande famiglia, tutta legata al cinema: si è voluta
riprendere uno spazio tutto per se? “No, ho condiviso ogni
pagina, ho avuto sostegno e vicinanza delle mie sorelle Paola,
Eleonora, Cristina ma sentivo che non avrei potuto fare
diversamente questo racconto se non sola io con mio padre”.
    Elaborare la sua storia è anche fare i conti con la
tossicodipendenza. “Tra i traumi della mia generazione c’è stata
la droga, ha avuto lo stigma della vergogna, io stessa l’ho
vissuto ma vorrei dire che si può uscire e pure a testa alta.
    Elaborare tutto questo e trasmetterlo ai giovani spiegando che
questo problema si può presentare ma anche risolvere mi sembrava
un passo importante”.
    Fabrizio Gifuni, abituato a stare nelle vite degli altri
anche famosi (Aldo Moro fra tutti), così come Romana Maggiora
Vergano che il personaggio lo aveva presente dietro la macchina
da presa, avevano due ruoli emotivamente complicati “ma siamo
stati subito liberati – rispondono all’ANSA – da questi
fantasmi, subito presi invece dal cuore del film, dal rapporto
padre- figlia”.
    Il padre – osserva Gifuni – “ha questo senso di fallimento,
ma prima si introietta questo pensiero prima lo si supera. La
cultura occidentale ha da anni alla base una stortura, quella
dell’essere performativi, ci divide in perdenti e vincenti ma prima ci si libera di queste cazzate più siamo al riparo. La
vita è anche questo, sbagliare continuamente e rialzarsi”.
    Romana Maggiora Vergano, reduce dal successo di C’è ancora
domani di Paola Cortellesi, si augura che Il tempo che ci vuole
sia visto dalla sua generazione di 20-30enni. “Prima che attrice
sono una giovane donna che ha sperimentato il senso assoluto di
inadeguatezza. Questo film è un coming of age, la storia di una
crescita e la comprensione che il viaggio dentro la la
conoscenza di sé dura una vita”.
    Il film è una produzione Kavac Film con Rai Cinema, Les Films
du Worso, IBC Movie e One Art.
   

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