martedì, 3 Dicembre 2024
Vittorio De Sica, Italia, amore e fantasia
Sciuscià, Ladri di biciclette, Miracolo a Milano, Umberto D., La ciociara… Con questi capolavori, da regista ha inventato il Neorealismo. Da attore, ha dato sostanza e carattere a personaggi che sullo schermo raccontano ancora oggi la nostra storia recente. E nella stessa biografia di questo straordinario uomo di cinema – che se ne è andato 50 anni fa – si ritrovano qualità e debolezze, tic e passioni di un Paese.
Come distinguere – esattamente – dove finisce la recita e quando comincia la vita? Vittorio De Sica, il personaggio del film, se lo portava a casa e il suo carattere – senza troppo sottilizzare fra qualità e debolezze – quietamente, entrava nei copioni da tradurre in una pellicola. Per questo- anche a cinquant’anni dalla morte, il 17 novembre 1974 – l’immaginario collettivo lo colloca nel gotha dei campioni del cinema, capace di dare voce alle cose di tutti i giorni che ciascuno può considerare come proprie, come se ciascuno si trovasse sul palcoscenico. Scene che ospitano la realtà. Neorealismo, per l’appunto.
La Cineteca di Bologna, nella Galleria Modernissimo, lo celebra (fino al prossimo 12 gennaio) con una rassegna dedicata «alla frastagliata esistenza di un uomo senza eguali» che è stato «regista&interprete». Gian Luca Farinelli, utilizzando foto, costumi e oggetti di scena che vengono dall’archivio di famiglia, ha costruito un percorso capace di restituire le tappe di un’esistenza inimitabile.
Per qualche tempo (poco, per la verità) in famiglia – più il padre che lui – s’illusero che potesse avviarsi a un impiego in banca. Tempi di ripresa economica, dopo la Prima guerra mondiale, con un diploma da ragioniere, anche senza raccomandazioni dall’alto, non era così difficile trovare un posto in qualcuno degli istituti finanziari che andavano moltiplicando le filiali. Del resto, il padre, Umberto, dipendente della Banca d’Italia, era stato trasferito alla succursale di Sora, nel cuore della Ciociaria. Vittorio si dannò sui numeri fino al diploma ma, dal momento dell’esame di maturità in avanti, di bilanci e «partite di giro», non ne volle più sapere. Al mestiere di attore sembrava predestinato.
Raffinato per vocazione, galante senza apparire sdolcinato e «posa» da gentiluomo per naturale ricercatezza. Da giovane, era sottile di corporatura, la faccia smagrita che s’infilava fra due orecchie leggermente a sventola. Vestiva di scuro ma il soprabito lo voleva color panna. Sceglieva camicie alla moda con le punte. Portava il farfallino piuttosto che la cravatta. E doveva impomatarsi per tenere a bada un mazzo di capelli impertinenti. Qualcuno lo prendeva in giro sostenendo che «con la brillantina, si faceva degli impacchi». I primi anni di un artista sono comunque complicati perché i lavori d’esordio portano poche soddisfazioni e nessun guadagno. Vittorio De Sica fu costretto a vivere «in aristocratica povertà».
Con la Seconda guerra mondiale le difficoltà non potevano che amplificarsi. La violenza dei soldati non risparmiò le famiglie e si accanì sulle donne. I combattimenti furono senza quartiere e il salvare la pelle diventò un impegno cui sacrificare anche le proprie convinzioni. Non pochi ufficiali barattarono la fuga con l’onore e qualche furfante si sentì obbligato dalle circostanze a diventare un eroe.
Dopo, con l’armistizio, fu la fame a farla da padrona e la ricerca del cibo per mettere insieme il pranzo con la cena costrinse ad adattarsi a lavori anche umilianti come lucidare le scarpe degli americani o rubare gli attrezzi che permettevano di lavorare. Per questo, davanti allo schermo, gli spettatori si appassionarono al Generale Della Rovere, quasi identificandosi. E poi: La Ciociara, il Ladro di biciclette o quel ragazzino che andava elemosinando una moneta americana. Sciuscià: posso lustrarti gli scarponi? Sofia Loren e Gina Lollobrigida entrarono nell’immaginario collettivo degli italiani attraverso quelle pellicole. Ma ognuno dei personaggi di De Sica – come, in tempi più recenti, quelli di Alberto Sordi e Carlo Verdone – vengono dalla strada e raccontano la vita quotidiana di piccoli imbroglioni, maniaci inconsapevoli, incrollabili fanatici o tombeur de femmes. E questo: nei panni di contadini, militari, nobili e persino del Papa.
La quotidianità legata all’incertezza spinge ad accettare il rischio – addirittura cercandolo – perché, in quel momento, l’individuo non subisce passivamente la vita ma, con lo sfidare il destino, ha l’impressione, se non proprio di dominarla, di giocarle, almeno, alla pari. Negli anni del dopoguerra i casinò non avevano ancora scopiazzato la moda delle slot machine in arrivo da Las Vegas. Per gli uomini, lo smoking era di rigore e le signore si presentavano in abito lungo. Facile incontrare Gianni Agnelli, Elizabeth Taylor, il re Faruk o l’Aga Khan. Gli amici hanno assicurato che De Sica giocava anche quando era povero. Certo, da più ricco, lasciò una fortuna sui tavoli verdi. Perdeva tutto ciò che guadagnava. Sembrava correre in un circuito senza sbocchi: lavorare per giocare, pagare i debiti e continuare a giocare.
Hanno raccontato che una notte, a Montecarlo, Aristotele Onassis che era il proprietario della Casa da Gioco si sentì in dovere di ringraziarlo. «Con quanto ha perso» gli batté indulgente una mano sulla spalla, «rifaremo le aiuole intorno al palazzo». Eppure, anche da «spennato», lasciava il tavolo sorridendo, con l’eleganza sorniona di un cavaliere rinascimentale che aveva sfidato l’avversario a singolar tenzone. Si congedava con un baciamano per le signore che conosceva e lasciava, comunque, le due ultime fiches ai «croupier». Quasi facendo la parodia di Marcel Proust che, afflitto dalla stessa mania per il gioco e condannato a perdere anche l’ultima moneta, rientrando in albergo, si faceva anticipare dal portiere di notte una discreta somma per lasciargliela di mancia (con il tacito impegno a restituirgli il prestito per il giorno dopo). Solo a Venezia – sembra – De Sica accennò a lamentarsi: «Questi lampadari monumentali li hanno fatti tutti con i miei soldi». Per recriminare: «Dovrebbero mettere almeno una targa per ricordarlo». Allora, il casinò non lo accontentò ma, nel 2008, finanziò il restauro di alcune sue pellicole. I suoi capolavori non andarono perduti.
L’azzardo – ovviamente – lo portò sullo schermo dove recitò nel ruolo del perdente. Nell’Oro di Napoli, De Sica, nella parte di un nobile, giocava a carte con il figlio del portinaio e perdeva sempre, sbottando contro la sfortuna sua e imprecando per la fortuna sfacciata dell’avversario. Nella finzione scenica – non troppo diversa dalla realtà effettiva – perse anche gli abiti che indossava.
L’attore padroneggiava la scena con un’autorevolezza che migliorava quelli che gli stavano accanto. Era celebrato perché – sempre per la testimonianza degli amici del tempo – era in grado di far recitare anche i cani e, subito dopo (o subito prima) per le sue conquiste femminili. Il figlio Christian, attore versatile, per qualità – evidentemente – ereditate dal padre, intervistato da Maurizio Costanzo, non si schermì: «la famiglia in cui ha vissuto era piuttosto una cooperativa». Delle sue «fidanzate» si è perso il conto. Certo, i matrimoni furono due: con Giuditta Rissone e con Maria Mercader. Per un periodo lungo, le due storie andarono avanti in parallelo in un rapporto complesso – persino intricato – che, oggi, con una legislazione sul divorzio, sembra paradossale. Vittorio De Sica si trovò costretto a sdoppiarsi per stare dietro a due famiglie. «Mai» assicura Christian «ci ha fatto mancare il suo affetto». Aggiungendo che «quando già eravamo grandicelli abbiamo saputo che papà aveva escogitato il trucco di mettere indietro la lancette dell’orologio in modo da fare colazione insieme e farci credere di aver dormito in casa». Comportandosi nella vita come se seguisse la partitura di un copione.
Pane, amore e fantasia, al contrario, portò nello schermo la galanteria briccona che mostrava fuori dallo schermo. Capelli meno ribelli e già spruzzati di quel bianco che sembra argento. Identico atteggiamento che lasciava intendere il falso come vero e trasformava il vero in commedia.
In un paese immaginario dell’Abruzzo (Stagliena) furono ambientate le passioni (e gli equivoci) cui dettero vita il Vittorio in divisa da maresciallo (Antonio Carotenuto) la «bersagliera» Lollobrigida, il carabiniere Stelluti (Roberto Risso) e la levatrice Annarella (Marisa Merlini). Commedia recitata che ispira la vita o quotidianità che diventa spettacolo? «Un giorno» parola del figlio Christian, in un’altra circostanza, ma sempre a Maurizio Costanzo, «ricevo la telefonata di una ragazza che si presenta come mia sorella. Non la conoscevo e non ero al corrente della sua esistenza. In quel momento mio padre era lì e mi venne naturale chiedergliene conto». Il racconto prese il tono della parodia. «Splendida attrice» rispose Vittorio, «grande temperamento e forza interpretativa». «Sì», la replica, «ma questa dice che è tua figlia e che io sono suo fratello…». E lui, come fosse stato in un film, con le spalle leggermente piegate in avanti e le braccia tenute staccate dai fianchi, nell’atteggiamento dell’imputato in cerca di giustificazioni. «Eh… capita…».