Cinque anni fa i primi casi di Covid a Wuhan, ancora scontro sulle origini

 Esattamente in questi giorni, 5 anni fa, gli ospedali di Wuhan, città di 13 milioni di abitanti nella provincia di Hubei in Cina, cominciavano a ricoverare i primi pazienti affetti da un’infezione respiratoria anomala. La maggior parte aveva febbre, tosse, difficoltà respiratorie che in alcuni casi erano particolarmente severe. È cominciata così, a dicembre 2019, quella che sarebbe diventata la pandemia da SarsCoV2, l’agente responsabile del Covid-19.
Da allora, secondo le stime dell’Oms, Covid ha infettato almeno 777 milioni di persone e causato 7 milioni di morti. La pandemia ha inoltre prodotto il più intenso sforzo in prevenzione della storia: in meno di 4 anni sono stati somministrati quasi 14 miliardi di dosi di vaccini e il 67% della popolazione mondiale ha ricevuto almeno un ciclo vaccinale completo. L’emergenza è passata, ma Covid non è archiviato: nell’ultimo mese ha causato ancora almeno 180 mila casi e 2.665 morti.

Perdura inoltre il dibattito sull’origine della pandemia. Nei giorni scorsi, la commissione Usa a guida repubblicana nata per indagare sulla nascita dell’emergenza Covid ha concluso che “il Covid-19 è molto probabilmente emerso da un laboratorio a Wuhan, in Cina”. Tesi immediatamente smentita dai democratici, che l’hanno definita di parte, e, indirettamente, anche dalla ricerca. Secondo quanto riporta Nature, negli stessi giorni, in un convegno ad Awaji, in Giappone, la virologa Shi Zhengli, che all’epoca dirigeva proprio il Wuhan Institute of Virology, ha reso noto le sequenze genetiche dei coronavirus in possesso del suo istituto mostrando che nessuno di essi è strettamente imparentato con SarsCoV2. Un secondo studio ha mostrano invece che alcuni animali del mercato di Huanan a Wuhan, ai tempi, avevano contratto l’infezione. Da questi animali il virus potrebbe essere arrivato all’uomo.

Intanto, però, la sfida è la preparazione alle nuove pandemie. Gli occhi sono puntati soprattutto sull’influenza aviaria A/H5N1, che, dopo aver imperversato in volatili e mammiferi raggiungendo perfino l’Antartide, da quasi un anno si è diffusa nei bovini in Usa. Il numero delle mandrie colpite cresce di giorno in giorno e sono già una sessantina le persone infettate. Per il momento, salvo che in una manciata di casi per cui è stato impossibile ricostruire la catena del contagio, tutti hanno contratto la malattia da animali infetti. Tuttavia, la possibilità che il virus acquisisca la capacità di diffondersi in maniera efficace nell’uomo dando vita a una nuova pandemia non è mai sembrata così vicina.
Di fronte a questo rischio, il piano pandemico globale è ancora in stallo: nelle scorse settimana nuovi incontri in seno all’Oms non hanno prodotto risultati significativi e, a oggi, sembra un miraggio riuscire ad arrivare a un testo condiviso entro la prossima Assemblea Mondiale della Salute, a maggio.
Sull’accordo pesa poi l’ombra del neo-presidente americano Donald Trump, che nel precedente mandato era stato molto critico verso l’Organizzazione Mondiale della Sanità arrivando ad avviare la procedura per il ritiro degli Stati Uniti dall’organizzazione.

In Italia, nel frattempo, dopo che a gennaio 2021 è stato varato il Piano pandemico influenzale 2021-2023, si attende l’invio alla Conferenza delle Regioni del nuovo Piano 2025-2029 che, per la prima volta, dovrebbe riguardare tutti i patogeni respiratori. Il ministero della Salute poco più di una settimana fa ha rassicurato che il percorso è alle battute finali; in manovra sono stati già stanziati 50 milioni per l’anno 2025, 150 milioni per il 2026 e 300 milioni di euro annui a decorrere dall’anno 2027 per l’attuazione delle misure contenute nel piano. 

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