Amerikatsi, il film che racconta gli orrori dell’Armenia comunista

“Amerikatsi” significa “americano armeno” ma per Charlie, che nel 1948 rientra nella sua patria dopo essere sfuggito, da bambino, agli orrori del genocidio nell’impero Ottomano, la sua identità occidentale equivale a una condanna immediata per “cosmopolitismo” nell’Armenia sotto un nuovo “protettore”: l’Unione sovietica di Stalin. Questa, in estrema sintesi, è la trama del film Amerikatsi appena uscito nelle sale italiane e candidato dall’Armenia come miglior film internazionale ed entrato nella short list finale degli Oscar.

Le riprese sono partite a marzo 2020, in piena pandemia, e si sono prolungate per cinque mesi tra i suggestivi scenari della capitale Erevan e le città di Gyumri e Ashtarak, dove sono stati girati tutti gli esterni. La principale location del film, il carcere-fortezza dove viene imprigionato Charlie, è stata ricreata su una struttura di epoca sovietica ancora esistente, abbandonata dagli anni Novanta. “Il film non è basato su una storia in particolare ma su varie testimonianze di rimpatriati armeni (furono oltre mille dopo la Seconda guerra mondiale) e dei loro discendenti ed è dedicato a mio nonno, rappresentato nel bimbo rinchiuso nel baule della sequenza iniziale. Mio nonno mi ha insegnato a rimanere sempre positivo, nonostante le terribili avversità a cui è stato sottoposto” racconta il regista Michael Goorjian, che del film è anche il protagonista e lo sceneggiatore. Nella ricorrenza, quest’anno, del centodecimo anniversario del genocidio armeno, “Metz Yeghern” (il “Grande Male”), il primo genocidio di massa del Novecento che provocò almeno un milione e mezzo di morti tra l’aprile 1915 e il luglio 1916, Goorjian ha preferito non concentrarsi sugli orrori e le persecuzioni subite dalla popolazione armena, deportata nelle zone interne della Turchia per essere eliminata, ma ha optato per uno sguardo narrativo poetico e nostalgico, che fa del protagonista un testimone “suo malgrado” dei tragici accadimenti storici che lo coinvolgeranno.

Per l’occhiuto regime comunista che controlla il paese, basta indossare in pubblico una cravatta per condannare un uomo, strappato alle sue radici e straniero alla lingua della sua terra, a dieci anni di prigione e di lavori forzati. Sbattuto in una squallida cella di isolamento, grazie a un piccolo pertugio l’uomo si trasformerà in un testimone privilegiato della vita famigliare di uno dei suoi carcerieri. Uno sguardo intimo e pieno di compassione, che gli consentirà di immergersi nella vita delle persone che osserva, senza esserne inizialmente ricambiato, e di cogliere, attraverso la loro quotidianità, l’essenza stessa della sua patria. Le tradizioni e l’anima di un popolo, le usanze religiose e i riti che, come l’antica melodia di cui cerca disperatamente notizie, lo riporteranno alle sue perdute origini. Attraverso le sbarre della sua finestra, Charlie trarrà la forza – e l’ispirazione artistica – per sopravvivere alla cruda realtà del carcere e ai suoi abusi. Le mura grigie si riempieranno, poco a poco, dei colori del cielo e della natura. Così lo spaesato detenuto americano diventa per tutti gli altri prigionieri, e per le guardie che all’inizio lo deridono e lo tormentano, l’incarnazione dell’attore occidentale più noto al mondo. Simile anche nel fisico a quel Charlie Chaplin che, come sua nonna in punto di morte lo aveva esortato, ha fatto del sorriso l’arma di sopravvivenza più potente contro le avversità del mondo. “Lo sai chi ha inventato il vino e la birra? “ “Lo sai chi ha inventato le scarpe? E chi ha inventato i tappeti? Gli armeni, ma nessuno ci ha ringraziati” si sfoga con Charlie un detenuto più anziano, mentre ricostruiscono a mani nude le mura del penitenziario abbattute da un terremoto. Ma al di là dell’orgoglio per l’identità nazionale riconquistata – seppure soggiogata dalla ferocia dello stalinismo e, prima ancora, dalle pressioni islamiche ottomane e persiane – l’umanità dei prigionieri si riconosce attorno alla capacità di Charlie di scovare la bellezza nell’orrore, dipingendo il monte Ararat (la sacra montagna degli armeni, oggi in territorio turco), con i colori impastati dalle pietre, e nel riuscire a sconfiggere l’ottusa burocrazia del carcere grazie alla complicità del fato che, sotto le spoglie di una cicogna, ancora una volta cambierà il corso del destino del protagonista.

“Questo non è un film che deve provare che sia avvenuto un genocidio ma è un film su un fatto storico. Come armeni noi abbiamo talmente tante storie da raccontare e penso che questo sia il modo migliore per dimostrare al pubblico la bellezza della cultura armena, e non solo le cose negative che sono accadute a questa nazione – aggiunge il regista, che è di origini armene, anche se nato e cresciuto a San Francisco – Molti dettagli sono basati su racconti di persone che ho intervistato. La storia di Tigran, che interpreta la guardia, si ispira alla storia del nonno di uno dei produttori che fu spedito in Siberia perché disegnava le chiese. Un altro rimpatriato fu arrestato con l’accusa di “cosmopolitismo” e di voler promuovere l’occidente, solo perché indossava una cravatta. Anche la finestra è un dettaglio preso da una storia vera: un amico ucraino conosceva un uomo rinchiuso in una prigione di Kiev che per cinque anni ha osservato gli eventi nell’appartamento di fronte alla sua cella. Quando il proprietario di casa non si è più mostrato, il prigioniero è diventato così agitato che ha tentato di rompere le sbarre solo per sapere che fine avesse fatto il suo dirimpettaio. Penso che questa vicenda, nella vita come nel film, dimostri un aspetto fondamentale della natura umana: finché ignoriamo gli altri, è facile non dare loro alcuna importanza. Ma nel momento stesso in cui iniziamo a osservare le persone, e iniziamo a saperne di più della loro vita, non possiamo fare altro che prendercene cura. Questo è stato uno dei motivi che mi ha spinto a realizzare il film”.

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