Oscar dietro le quinte, tifo in sala stampa e premiati a caldo

Raggiungere la sala stampa è
una gincana di controlli, scanner, cani che annusano e addetti
alla sicurezza che aprono zaini e borsette. Una volta superato
il check point al secondo piano del Loews hotel, nel retro del
Dolby Theatre, non si può più fare nulla: né foto, né video, né
videochiamate. Lo stanzone, allestito con un palco nel fondo per
i vincitori che vengono a farsi intervistare e sette lunghi
tavoli con drappo nero per i giornalisti, sembra pronto per un ‘grosso grasso matrimonio’ in cui tutti sono vestiti eleganti,
ma nessuno conosce gli sposi. Quest’anno più che mai, dopo il
consueto saluto ai vicini di postazione – “Happy Oscar,
everyone!” -, seguono esclamazioni interrogative sull’esito
della serata.
    I colleghi spagnoli sono i primi a cui si chiedono lumi: “Dov’è Karla Sofía?” (Gli attori sono chiamati per nome, come
fossero amici). Gli interpellati non sanno dove si sia nascosta
la prima donna trans ad essere nominata e poi ‘auto-azzoppata’
per la statuetta a miglior protagonista. La giornalista
dell’agenzia EuropaPress fa la battuta che diventa virale: “L’hanno fatta passare per un tunnel scavato dai narcos”. Quando
Conan O’Brien la saluta dal palco e la regia la inquadra
comodamente seduta in platea tutti si tranquillizzano.
    Tutti tranne i messicani, che in fila per gli involtini
primavera del buffet intavolano un acceso dibattito. Mario
Szekely del quotidiano El Universal ha trovato il film “commovente e coraggioso”. Susana Moscatel ribatte che è una “caricatura ridicola del paese e dei suoi problemi, che
meriterebbero un trattamento più serio e meno canterino”.
    Entrambi sono alla loro 25sima notte delle stelle. Quattro
colleghi di France Press non capiscono il punto, per loro “Jacques – Audiard, il regista francese, ndr – ha fatto un film
memorabile”. La vittoria di Zoe (Saldaña) come miglior
interprete secondaria mette comunque tutti d’accordo. Persino
Moscatel ammette: “Tra tutti, è la meno peggio. Lei è stata
brava”. L’attrice strappa urla di approvazione transnazionali
quando dal palco si proclama orgogliosamente americana di
seconda generazione. In sala stampa ribatte alla polemica che ha
travolto il film: “Emilia Pérez non è un’opera sul Messico. È
un’opera su tre donne che lottano per trovare la propria voce.
    Avrebbero potuto essere russe, nere di Detroit, israeliane o di
Gaza. Rifarei questo film cento volte”. Non altrettanto diretto
il regista Jacques Audiard, che schiva tutti i colpi del plotone
di giornalisti: “Vuole dire qualcosa alla comunità transessuale
che non ha apprezzato il film?”; “Cosa replica ai messicani che
si sono sentiti offesi guardando Emilia Pérez?”. La sua unica
risposta: “Avessi vinto l’Oscar per la regia o per il film,
avrei risposto. Ma ho vinto per aver scritto tre brani
musicali”. Doveva essere una battuta del 72enne francese,
evidentemente deluso, ma la sala resta gelata.
    In questa specie di palazzo di vetro del cinema che è la sala
stampa degli Academy Awards, l’unico premio a Conclave consola
tedeschi (il regista Edward Berger), britannici (lo
sceneggiatore Peter Straughan) e italiani (in fin dei conti, il
film è stato girato a Roma). Si lavora dandosi gomitate continue
– lo spazio assegnato ad ognuno dei circa 250 giornalisti basta
al massimo per un laptop da 15 pollici – rischiando di
rovesciare tazze di caffè e cataste di panini iper imbottiti e
gamberoni in salsa agrodolce.
    Il campanilismo tocca l’apice per la vittoria di ‘Io sono
ancora qui’ come miglior film internazionale. Il folto drappello
brasiliano festeggia come fosse la finale dei mondiali. Cleide
Klock, di Cnn Brazil, confida: “Da noi è Carnevale, ma si sono
tutti fermati per vedere se riuscivamo a portare a casa il primo
Oscar”. Missione compiuta. “Questo non è un premio al mio film,
ma al nostro paese, alla nostra cultura e al nostro modo di fare
cinema”, dichiara il regista Walter Salles quando arriva con la
statuetta in mano.
    Meno rumorosa, ma altrettanto commossa la “delegazione”
lettone. Il primo Oscar ottenuto dal paese baltico (per il
miglior cartone animato Flow) ha fatto piangere le due
giornaliste arrivate da Riga: “È come apparire sul mappamondo
finalmente!”, esclama Mara Rozenberga di Latvian Public Radio.
    Appare più emozionata del regista Gints Zilbalodis, che non
perde un millimetro della sua compostezza rispondendo ai
complimenti nel backstage.
    Gli applausi più forti tra i giornalisti curvi sulle tastiere
sono arrivati per ognuno dei cinque Oscar di Anora e per il
documentario ‘No other land’, diretto, prodotto, scritto e
montato da un collettivo israelo-palestinese. Un fatto degno di
nota, in una serata altrimenti priva di riferimenti al mondo che
si stende più in là dell’Hollywood Boulevard.
   

Riproduzione riservata © Copyright ANSA

Leggi su ansa.it