Abbiamo visitato la mostra del MIC di Milano sul King Kong di Rambaldi

King Kong Rambaldi

Devo fare una premessa: con il King Kong di Carlo Rambaldi – e soprattutto con la sua gigantesca mano meccanica – avevo un conto in sospeso. Più di trent’anni fa, il Museo della Scienza e della Tecnologia di Milano ospitò una mostra itinerante dedicata proprio alle creazioni di Rambaldi, compreso il braccio di Kong. Con i suoi 6 metri di lunghezza, quell’arto colossale (in movimento!) accoglieva i visitatori all’ingresso della mostra, pronto ad afferrarli come fiorellini di campo. All’epoca avevo quattro anni, forse cinque. Non ricordo con esattezza. Ciò che ricordo, però, è mio padre in fila per i biglietti e io che sgattaiolo dentro impaziente, salvo poi darmela a gambe di fronte alla mano del mostro. È uno dei suoi aneddoti preferiti: mio padre dovette acchiapparmi al volo per evitare che sparissi in una nuvola di polvere, come nei cartoon. Chissà, magari è per esorcizzare quello spavento che faccio questo lavoro.

Di sicuro, la mostra Nella mano di King Kong al MIC – Museo Interattivo del Cinema di Milano (qui tutte le informazioni) mi ha permesso di chiudere il cerchio. L’ex manifattura tabacchi di viale Fulvio Testi 121 ospita la Cineteca Milano, e il grazioso museo del cinema è stato parzialmente riallestito per omaggiare la creatura di Carlo Rambaldi, in collaborazione con la famiglia. E non è tutto: il Direttore della Cineteca, Matteo Pavesi, ha promesso altri eventi legati a Rambaldi nei prossimi anni, poiché i materiali a disposizione del MIC sono tantissimi.

Un po’ di storia

Il King Kong a cui lavorò Rambaldi è ovviamente quello del 1976, diretto da John Guillermin e prodotto da Dino De Laurentiis. Non il miglior film di Kong, ma forse il più noto tra i ragazzini degli anni Ottanta e Novanta, considerati i suoi numerosi passaggi televisivi.

De Laurentiis voleva unire la popolarità dei film catastrofici dell’epoca (Trappola di cristallo, Terremoto, ecc.) con la tradizione dei monster movies, e Kong sembrava l’unione perfetta di entrambi i generi. Il produttore, però, non era soddisfatto dei Kong realizzati negli Stati Uniti, pupazzoni poco credibili che stridevano con le ambizioni del film. Decise quindi di chiamare un certo Carlo Rambaldi, che ormai si era fatto un nome in Italia con gli effetti speciali di Terrore nello spazio, L’Odissea e Profondo rosso, giusto per citarne alcuni. Diploma di geometra, laurea all’Accademia di Belle Arti di Bologna, Rambaldi nasce come artista e pittore, ma il suo straordinario lavoro sugli effetti visivi lo fa diventare una sorta di ingegnere autodidatta.

King Kong è il film che gli apre le porte di Hollywood. Carlo non parla inglese, è abituato alle piccole produzioni nostrane, ma l’impegno non lo spaventa: fa armi e bagagli e si trasferisce in California. Con pazienza e dedizione, si mette a studiare le scimmie dello zoo di San Diego (e in particolare il gorilla Bun) per il design del mostro, e anche per creare le giuste espressioni facciali con l’uso dell’animatronica. Il risultato è un Kong a grandezza “naturale”, ben 12 metri, del quale resta il colossale avambraccio destro. Rambaldi vince così il suo primo Oscar, a cui ne seguiranno altri due per Alien e E.T.. Non proprio dei film marginali, diciamo.

Il benvenuto di Rambaldi

Il percorso si apre con un video di Rambaldi dalla mostra del 1988, presumibilmente la stessa che visitai da piccolo, ma il filmato risale alla tappa originale di Ferrara. Oltre ad ascoltare la voce dell’artista che ci svela i segreti della sua opera, possiamo ammirare il braccio in movimento, e dare un’occhiata al Kong intero.

Sono inoltre presenti due schermi più piccoli che fungono da “carta d’identità” del film, ricchi di informazioni e video dell’epoca. Sulla sinistra è invece possibile vedere un montaggio dei vari Kong (o altre scimmie) che hanno attraversato la storia del cinema in diverse forme, dall’animazione al live-action.

Strumenti e modelli

L’area più suggestiva è forse quella che include una delle casse contenenti gli attrezzi di Rambaldi, peraltro costruita da lui stesso. Sono gli strumenti di un artigiano e di un pittore, come potrete vedere nelle foto: le spoglie di un’epoca in cui gli effetti speciali avevano a che fare con la materia, erano una combinazione di pittura, legno, metallo, lattice e ingranaggi. Attorno potete vedere gli splendidi dipinti dell’artista, frutto di un lungo studio sulle scimmie dello zoo: il gorilla al centro è Bun, il suo principale “modello”. Ci sono anche vari studi per lo sfortunato sequel, King Kong 2. Vicino alla cassa c’è la seggiola che Rambaldi occupava sul set.

Disegni leonardeschi

Il corridoio laterale è invece occupato dai suggestivi progetti di Rambaldi per la creatura: disegni meccanici di bellezza leonardesca, dove la precisione anatomica rivela una strordinaria cura per ogni dettaglio. Le illustrazioni partono dalla superficie epidermica delle mani, delle braccia e del muso, per poi denudare gradualmente gli strati sottostanti.

Spazio all’interazione

Essendo un museo interattivo del cinema, il MIC ha messo a disposizione della mostra alcune delle sue attività, con risultati molto spassosi. Al pianterreno, in fondo, c’è un green screen dove potete scattare una foto immersi nelle scene di vari film, tra cui ovviamente King Kong. Riceverete lo scatto scatto via mail in formato digitale (l’interfaccia da usare è semplicissima), e potrete anche stamparne una copia. Vedere per credere:

(Sì, questo sono io, il vostro affezionato corrispondente)

La vera sezione interattiva si trova però al piano di sopra. Una stanza è dedicata agli arcade, con cabinati di giochi leggendari come Pac-Man, Space Invaders e Donkey Kong, per rimanere in tema scimmiesco, oltre a un gioco originale sviluppato dal MIC. Nella sala doppiaggio è possibile ridoppiare le scene di vari film, compreso King Kong, mentre la sala Virtual Reality è tutta per la VR: si possono vedere film in questo formato, e anche trovarsi faccia a faccia con l’amato gorilla. Ha poco a che vedere col film di Guillermin, ma è doveroso citare anche la sala musica, dov’è presente una Mash Machine che crea dipendenza. Provare per credere: si tratta di una piattaforma luminosa sul quale potrete collocare diverse tessere, ognuna delle quali corrisponde a una colonna sonora, una citazione cinematografica, una percussione e un effetto sonoro; combinando le varie tessere, creerete delle tracce musicali irresistibili che vi faranno sentire come un DJ sulla spiaggia di Ibiza. O almeno credo, non sono mai stato a Ibiza. Comunque, il flow è così travolgente che ci passerete delle ore.

(Ogni riferimento a fatti o persone reali è puramente casuale)

Nella mano di King Kong

E arriviamo finalmente al pezzo forte, che troverete proprio all’uscita: l’avambraccio di King Kong, quello che mi terrorizzò da bambino. Le sue dimensioni sono impressionanti, e la mano semiaperta vi permetterà di fare qualche foto mentre siete ghermiti dalla bestia, come Jessica Lange (purché facciate attenzione a non danneggiare niente, mi raccomando). Il paradosso è che l’arto risulta un po’ sacrificato: collocato in un cantuccio, separato dall’atrio con una barriera, appare un po’ disorganico rispetto alla mostra stessa. È un peccato che non sia in movimento, ma forse non era possibile attivarlo per questioni logistiche. Comunque, è un pezzo di storia del cinema che potrete vedere molto da vicino: un’occasione davvero rara.

Vederlo così, placido e inerte, mi suscita una certa tenerezza. Se volevo una chiusura del cerchio, eccomi servito: la manona di Kong è la reliquia di un cinema che non c’è più, ma continua a rappresentare la forza anarchica della natura, e la presunzione umana nel tentare di domarla. Che Rambaldi le abbia dato vita con elettricità e ingranaggi, usando la creatività e l’ingegno dell’uomo, è uno di quei meravigliosi paradossi che l’arte talvolta ci regala. In una tradizione cinematografica come quella italiana, così disabituata a inventare spazi e creature, Rambaldi è un’eccezione che merita di essere celebrata molto più di quanto facciano solitamente le nostre istituzioni. Questa mostra è un ottimo inizio.

Leggi su ScreenWEEK.it