Magistratura: tutto finisce con una guerra

È bastato un oscuro faccendiere siracusano, all’anagrafe Piero Amara e in arte Zorro, per demolire quel poco che restava del mito della stagione del Pool di Mani pulite e della Procura di Milano, che su quella leggenda ha costruito le proprie fortune mediatiche tanto solide da imporre, per decenni, ai palazzi romani, Quirinale e Csm, i propri riti e una dinastia di procuratori rigorosamente provenienti da Magistratura democratica.

Un laboratorio in grado di forgiare una genia di pm capaci di esportare anche ad altre latitudini un modello, quello ambrosiano, fatto di processi costruiti sul pentimento dei colletti bianchi più che sullo studio di bilanci o movimenti finanziari. Una scuola che ha temprato alla sovresposizione mediatica magistrati ragazzini che hanno imparato come per far carriera sia più fruttuoso persuadere i giornalisti che i giudici.

Qualche avvisaglia che le cose non fossero come sembravano si era avuta già con la pubblicazione, nel maggio 2020, da parte del quotidiano La Verità, delle chat di Luca Palamara che riguardavano il procuratore meneghino Francesco Greco e la sua perorazione, proprio presso Palamara, della collega Laura Pedio ad aggiunto. E a chi leggeva risuonavano ancora nelle orecchie le alte e indignate parole pronunciate dallo stesso Greco il 19 giugno 2019 quando, a proposito delle nomine correntizie fatte dal Csm, definì come «sconcertati e umiliati», lui e la sua tribù, dalle «logiche di funzionamento» di un «mondo che vive nei corridoi degli alberghi e nelle retrovie della burocrazia romana e che non ci appartiene e non appartiene ai magistrati del Nord».

Ma certo nessuno pensava si arrivasse al redde rationem tra Greco, già pm di complemento del Pool di Mani pulite in veste di esperto di reati economici, e l’altro campione di Tangentopoli Piercamillo Davigo, sui verbali del faccendiere Amara, che ha patteggiato diverse pene per corruzione in atti giudiziari e alti reati, a proposito di una misteriosa loggia Ungheria; e sulla loro consegna allo stesso Davigo da parte del pubblico ministero Paolo Storari, entrato in rotta di collisione proprio con Greco e con Fabio De Pasquale, altro noto esponente di quella «mitica» stagione giustizialista che dei processi all’Eni, fin dai primi anni Novanta (quando il manager Gabriele Cagliari si suicidò in galera), ha fatto il suo segno distintivo. Si è quindi arrivati alle carte bollate.

A luglio, Davigo aveva iniziato a lanciare sul Corriere della sera le prime bordate contro il collega per la gestione delle indagini su Ungheria, in cui – a detta di «Piercavillo» – le prime iscrizioni erano arrivate solo dopo un suo intervento indiretto su Greco. Ma anziché ricevere dei ringraziamenti, Storari (e di conseguenza Davigo) sarebbe stato «rimproverato per la sollecitazione» dal procuratore di Milano. Il quale, sempre sul Corriere, un paio di mesi dopo, ha replicato alle accuse e ha incolpato Storari di non aver rispettato alcuna regola, creando una situazione di «anarchia» in cui (e qui ogni riferimento a Davigo è puramente voluto) «il consigliere del Csm può diffamare, così come è successo, senza che ci sia la possibilità di una replica dell’interessato».

Quindi ha riservato ai suoi bersagli quest’ultimo cruento attacco: «Mentre ancora c’è nebbia sul dove, quando e perché Storari e Davigo si siano scambiati sottobanco i verbali, una cosa è sicura: l’uscita era nell’interesse di Davigo che non si è preoccupato assolutamente della sorte del procedimento e quando ha lasciato il Csm quei verbali li ha abbandonati. Fatto imbarazzante».
L’insinuazione è che Davigo stesse regolando dei conti personali con un altro consigliere della sua corrente, Sebastiano Ardita, citato da Amara come appartenente a Ungheria e con cui da qualche tempo aveva separato la strada, soprattutto dopo i contrasti sulla nomina del procuratore di Roma.

Uno scontro ben descritto nell’avviso di chiusura delle indagini per rivelazione di segreto contro Storari e Davigo. Un capo d’imputazione in cui l’ex eroe di Mani pulite è raffigurato mentre, tutto indaffarato, comunica, verbali alla mano, a questo e a quello di stare attenti ad Ardita. Per esempio suggeriva alla consigliera del Csm Ilaria Pepe di «prendere le distanze» da Ardita; sussurrava al collega Stefano Cavanna che «in questa indagine era coinvolto Ardita»; metteva i verbali sotto il naso del presidente dell’Antimafia Nicola Morra «per spiegare il motivo dei contrasti insorti tra lui e Ardita».

Chiedeva poi a un altro consigliere del Csm, Giuseppe Cascini, di valutare l’attendibilità di Amara, si confidava anche con altri membri del parlamentino dei giudici, Giuseppe Marra e Fulvio Gigliotti, e con il vicepresidente David Ermini che, scena imperdibile, «ritenendo irricevibili quegli atti e inutilizzabili le confidenze ricevute, immediatamente distruggeva la documentazione». Insomma l’uomo che aveva mandato al macero la Prima Repubblica aveva fatto la fine della bisbetica che sul corso i compaesani provano a evitare cambiando marciapiede.

Davigo non ha preso benissimo le parole di Greco nell’intervista e la sera stessa del 12 settembre ha preannunciato querela. Facendo piovere sul bagnato perché anche Greco in quel momento era già indagato a Brescia per omissione in atti di ufficio.
Ma il procuratore, che andrà in pensione il 13 novembre, giorno del suo settantesimo compleanno, nel frattempo ha conquistato per sé una richiesta di archiviazione, seppur a un prezzo altissimo: ha scaricato tutto sugli aggiunti Pedio e De Pasquale dichiarando cioè che le iscrizioni per la loggia Ungheria avrebbe dovuto farle la Pedio mentre gli atti che sconfessavano l’accusa nel processo Eni avrebbe dovuto produrli De Pasquale, che per questa presunta negligenza ha ricevuto un avviso di conclusione delle indagini.

Ma il probabile proscioglimento rischia di restare una vittoria di Pirro. Infatti 56 pm su 64 della sua Procura si sono schierati con Storari quando il Csm ha annunciato di volerlo allontanare per incompatibilità ambientale, dando la plastica immagine di un procuratore e del suo cerchio magico del tutto scollati dalle truppe. La fotografia di un palazzo di vetro trasformato in un bunker sotterraneo avvolto dal fumo dell’artiglieria nemica. Un rifugio in cui Greco e i suoi fedelissimi continuano a fare la guerra senza accorgersi che è persa.

E viene da sorridere a pensare che tutto è accaduto per le controverse dichiarazioni di Amara spedito (ovviamente senza alcuna malizia) a Milano come utile testimone da un altro ex protagonista della stagione di Tangentopoli: il potente aggiunto romano Paolo Ielo che in Lombardia ha iniziato la carriera proprio a fianco del Pool. Amara, un presunto pentito che il pm Stefano Fava aveva già individuato come mentitore seriale fin dal 2018, quando Zorro aveva iniziato la sua finta collaborazione con la Procura di Roma e Messina. Fava, allontanato dall’indagine come sarebbe successo a Storari, aveva avvertito i colleghi, e tra questi soprattutto Ielo, che più che davanti a un «teste di accusa», nel caso di Amara si trovavano al cospetto del classico «pupo vestito», esattamente come il noto Vincenzo Scarantino, strumento di depistaggio così come della condanna di sette persone innocenti che per queste calunnie hanno soggiornato al «41 bis» ben 19 anni.

Di Scarantino si era occupato direttamente un altro storico pm milanese, Ilda Boccassini, la quale aveva quasi subito capito di avere di fronte un bugiardo; per questo non è forse un caso che qualche anno dopo un suo allievo, Storari, abbia compreso la fallacia del «teste di accusa» Amara segnalato a Milano come utile dichiarante in grado di risolvere il problema del processo Eni/Nigeria che toglieva il sonno a De Pasquale & c.

E già che abbiamo citato la Boccassini, conviene aprire un capitoletto non sull’attualità, ma sul passato del Pool, che però ci restituisce una foto di famiglia che forse vale anche per l’oggi. Un quadretto in cui la giustizia resta sullo sfondo e prevalgono divisioni e calcoli personali.

La Boccassini nella sua recente autobiografia La Stanza numero 30 ha ricordato i contrasti sorti con i colleghi per il cosiddetto processo «Toghe sporche» che riguardava il Lodo Mondadori – quindi, indirettamente, anche l’allora potentissimo Silvio Berlusconi – e che portò «alla condanna di tutti gli imputati con sentenza passata in giudicato». Scrive la Boccassini: «Il peso delle indagini gravava su me e Gherardo Colombo, mentre Piercamillo Davigo, Paolo Ielo e Francesco Greco si occupavano di altro. Io ero molto stanca e a un certo punto dissi che dopo i rinvii a giudizio sarei voluta tornare all’Antimafia, che i dibattimenti avrebbero ben potuto condurli gli altri colleghi del gruppo. (…) Davigo era contrario, disse che se lo costringevano ad andare in aula avrebbe intentato causa civile per astenersi. Con Francesco Greco e Paolo Ielo neanche se ne poteva parlare».

Boccassini accettò di andare avanti, ma a un patto: «Ottenni, in cambio, che anche Francesco Greco firmasse la richiesta di rinvio a giudizio della vicenda Lodo Mondadori, nonostante fosse recalcitrante. Per questo Saverio (Borrelli, l’allora procuratore, ndr) mandò un autista a Courmayeur, dove Greco si trovava in vacanza, con il provvedimento da sottoscrivere», mentre «Piercamillo Davigo e Paolo Ielo restarono fermi sulle loro posizioni, con motivazioni che per la verità non mi sono mai sembrate ostative».

Più di vent’anni dopo, Ielo (che in aula timido non era e, trentaquattrenne, arrivò a definire Bettino Craxi un «criminale matricolato») e il suo vecchio capo Giuseppe Pignatone hanno affidato a Greco la bomba Amara; successivamente Storari ha consegnato i suoi interrogatori a Davigo, il quale li ha abbandonati, andando in pensione, nel suo vecchio ufficio; e la sua segretaria Marcella Contrafatto li ha inviati, questa la tesi dell’accusa, a due giornalisti e a un consigliere del Csm, allegando a quest’ultimo plico una lettera considerata calunniosa nei confronti di Greco, accusato di aver «tenuto ben nascosto» il verbale su Ardita, perché in altri passaggi ci sarebbe stato «anche lui», Greco. Citato, a onor del vero, per la semplice partecipazione a un convegno organizzato presso il Csm da un osservatorio sulla criminalità organizzata di cui faceva parte Amara e da lui definito vicino alla loggia Ungheria.

Per chiudere il cerchio, nell’aprile scorso, a perquisire la Contrafatto si è presentato pure Ielo. Che poi però, quando è risultato chiaro il coinvolgimento del vecchio amico Davigo, ha deciso di astenersi dalle indagini. Ma torniamo al teste Zorro. Quanto sia inaffidabile lo ammette lui stesso. Interrogato dal Gip di Potenza il 10 giugno 2021, proprio a proposito della «collaborazione» con le Procure di Roma e Messina, dopo il suo arresto del 6 febbraio 2018, ha dichiarato (pagina 10 dell’interrogatorio) che «lo stesso Calafiore (il coindagato Giuseppe, ndr) quando fu sentito a Roma e a Messina, un po’ come me, raccontò della favola di Pinocchio». Ma Amara in Lucania criticò anche Storari, risparmiando però la Pedio.

Dunque, nella ex Capitale morale d’Italia è giunto da Roma, spedito da un fedelissimo del vecchio Pool, un cavallo di Troia che neanche i mariuoli più incalliti avrebbero potuto sognare di piazzare dentro la cittadella giudiziaria che la politica non era mai riuscita a espugnare e in cui le toghe rosé meneghine, a inizio millennio, in piena stagione berlusconiana, si erano asserragliate al grido di «Resistere, resistere, resistere».

Eppure, nel dicembre 2019, davanti ai pm di Milano, Amara, mentre sparlava di tutti, si era mostrato molto deferente verso i padroni di casa: «La candidatura di Greco apparve da subito molto forte e difficile da superare» e il progetto di Ungheria di sostenere un altro candidato «non andò in porto» fece sapere. E rivelò anche di aver progettato di boicottare il lavoro di De Pasquale a colpi di esposti. Tutte medaglie per the «New Pool» o «Pool 2.0».

Nelle stesse ore Zorro aveva consegnato agli inquirenti anche la toga o forse lo scalpo di un altro magistrato che aveva dato il suo contributo, da Gip, alle indagini di Mani pulite. «Sa se anche il sostituto procuratore di Torino Andrea Padalino facesse parte dell’associazione Ungheria?» avevano chiesto a bruciapelo Pedio e Storari a Zorro. Una domanda che spuntava dal nulla e che trovava, però, Amara prontissimo a iscrivere all’associazione Padalino, in quel momento indagato per corruzione in atti giudiziari e abuso d’ufficio: «Certamente sì, ne fa parte». Un pesante affondo contro un giudice la cui immagine eroica dei tempi di Tangentopoli era già offuscata dal sospetto di aver elargito favori in cambio di vacanze gratis e cene stellate, accuse per cui è oggi alla sbarra.

Padalino a parte, uscito dalla Lombardia, come detto, il Testimone aveva cambiato registro e, a Potenza, dove è finito in carcere nel giugno scorso, si era permesso di fare allusioni su Greco, pur rivendicando la «stima assoluta» nei suoi confronti: «Io sapevo che all’epoca per la dottoressa Pedio, persona che io stimo, ci fu un sollecito a Palamara da parte anche dello stesso Greco (la notizia era stata pubblicata dalla “Verità” un anno prima dell’interrogatorio, ndr), quindi io che sono un figlio di puttana siciliano penso: ma tu fino a che punto sei sereno nel gest…». Ma a inizio ottobre il procuratore di Milano, uscito indenne dall’inchiesta di Brescia, è andato a interrogare personalmente Amara in prigione a Terni, trovandolo disponibile a dare ancora una mano alla Procura nei processi istruiti da De Pasquale contro l’Eni. Nelle parole di Amara, mazziato e carcerato, Greco è tornato «Signoria Vostra» e baluardo insormontabile di legalità. Un canovaccio destinato a durare, ne siamo certi, solo fino al prossimo spettacolo del Pupo vestito.

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