Stefano Coletta: «I miei due anni alla guida di Rai1 tra Sanremo, polemiche e novità»

Stefano Coletta ha da poco tagliato il traguardo dei due anni alla direzione di Rai1 di cui sarà anche l’ultimo direttore in carica. Il nuovo modello organizzativo della Rai prevede infatti la nascita di dieci direzioni di genere tra cui quella dell’Intrattenimento Prime Time, affidata proprio a Coletta. “Uomo di prodotto”, “uomo Rai”, “il direttore intellettuale”, le etichette su di lui di sprecano: in trent’anni ha scalato l’azienda, entrando da precario (tale è rimasto per dieci anni) e lavorando a decine di programmi di successo fino al vertice di Rai3 e poi dell’ammiraglia. Conosce l’azienda e i suoi uomini, da psicanalista mancato ne sa analizzare pregi, aspirazioni e punti deboli. Legge molto, scrive tanto – «il mio grande sogno è pubblicare un romanzo», rivela a Panorama.it, parlando anche di Sanremo 2022, Eurovision, dei successi di rete e dei flop, dei programmi futuri tra cui un omaggio alla Carrà -, lavora senza sosta da stakanovista di ferro che piace in maniera trasversale ai big della tv (e ai partiti).

Coletta, che effetto fa sapere di essere l’ultimo direttore di Rai1?

«L’effetto è straniante e nostalgico. Lascio un lavoro con un’identità più ordinata e vado con entusiasmo verso un qualcosa in evoluzione, forse meno strutturata, ma più avvincente sul piano della hybris e della passione. Però il mood resta lo stesso di quando entrai in Via Asiago a 26 anni, con un contratto a termine per lavorare a RadioRai: m’interessa la missione di servizio pubblico, che poi è il senso profondo del mio lavoro, non l’autoreferenzialità».

Cosa porta in dote a questa nuova nata, la Direzione Intrattenimento?

«La creatività e l’ordine che ho gestito in due generaliste. Il cambio di passo è notevole, ma resta immutata la mia mentalità da operario: non per farmi il santino, ma credo che questo sia il segreto del mio successo ed è ciò che voglio portare in questa sfida in cui la avremo la grande responsabilità di lavorare all’intrattenimento dall’access alla seconda serata. Ho la fortuna di lavorare accanto a professionisti perbene e competenti, dai miei vicedirettori ai dirigenti a tutta la squadra».

La sfida più grande?

«L’innovazione. Che poi è uno dei codici che più mi hanno interessato, da sempre. A Rai3 da direttore ho introdotto tantissimi titoli nuovi, su Rai1 ho portato dei marchi come È sempre mezzogiorno e Oggi è un altro giorno che in due anni sono diventati identitari della rete. Ecco il punto di fierezza: non sarò solo l’ultimo direttore di Rai1 ma quello che l’ha gestita in piena pandemia, dal giorno uno ad oggi»

Il momento più complicato di questi due anni?

«Troppi per sceglierne solo uno. Non è stato facile trovare una metodologia nuova, plasmare il palinsesto con scelte complicate sul canale più importante della tv. Fare intrattenimento durante il Covid a tratti è stato un ossimoro, guardare con un occhio alla complessità della realtà emergenziale e con l’altro al futuro, è difficilissimo. Il tutto senza mai dimenticare la responsabilità della leadership di ascolto».

A proposito, che anno è stato il 2021 per Rai 1 in termini di ascolti?

«A dicembre ero a casa con il Covid ed è arrivata la sintesi del 2021: nel prime time Rai1 ha chiuso con il 19,8 di media, numeri che non si leggevano dal 2011, quando la tv era meno competitiva e meno frammentata. Questo mi ha reso orgoglioso. Rai1, anche in questo primo mese dell’anno, sale di un punto nelle 24 ore ed è crescita anche in prima serata: questo vuol dire che siamo stati presi come punto di riferimento dalle persone».

Sono due anni esatti che sta al vertice di Rai1, ma vista la situazione, valgono dieci: i programmi di cui è più orgoglioso?

«Dire tutti sarebbe scontato. Vorrei citare almeno i marchi nuovi, le fasce in cui abbiamo riacceso l’attenzione, come il mezzogiorno con Antonella Clerici e il primo pomeriggio con Serena Bortone – che va contro la corazzata De Filippi, – è motivo di grande soddisfazione. Così come aver scommesso su un titolo narrativo e musicale come The Voice senior, che per il secondo anno ha performato bene, con il 19% di media e l’esperimento dell’Arena con Amadeus che ha fatto brillare il Saturday night. E che vanno a aggiungersi ai marchi storici che quest’anno si sono rivitalizzati: parlo di Tale e quale e Ballando con le stelle».

Ma non sono mancati alcuni flop, su tutti quello di Da Grande con Alessandro Cattelan. Di grandi ci sono state soprattutto le critiche.

«Ho commesso alcuni errori e li rifarei perché solo quando si sbaglia si capisce come rimediare e solo quando si brilla si possono tentare strade nuove. Non rinnego le due puntate di Cattelan, che considero un grande professionista: c’erano delle cose molto buone e altre che, avendo alle spalle una lunga storia autoriale, non avrei fatto per una eccessiva autoreferenzialità».

Considera un errore averlo mandato in onda in prima serata senza un “rodaggio” in Rai?

«Potevamo facilitare di più il suo impatto in Rai, questo sì. Ma Alessandro è un artista completo che porta con sé un codice di innovazione e mi piacerebbe linkarlo a una dimensione più congrua al suo linguaggio».

Ha in mente altri progetti per lui?

Non ci ho ancora ragionato.

Lucia Annunziata ha detto di lei: «In epoca di populismi, ha reso popolare il racconto delle persone con grande sensibilità per quello che il popolo esprime». Quella sensibilità dove l’ha affinata?

«Devo molto alle lunghe estati a Roio del Sangro, un piccolo borgo di cento abitanti in provincia di Chieti, di cui erano originari entrambi i miei genitori. Io sono nato e cresciuto a Roma, dove ho studiato e mi sono formato, ma quello è il mio secondo habitat: è il luogo del cuore che mi ha consegnato quello che i miei amici definiscono la “dimensione della panchina”. La propensione per l’ascolto senza dubbio l’ho coltivata lì».

Che faceva su quella panchina?

«Divoravo i classici ma soprattutto accoglievo ed esploravo vite distanti dalla mia. Ero visto di sottecchi come il ragazzino intellettuale, meno omologato, ero quello che leggeva Dostoevskij. Oggi sono l’orgoglio dei paesani e quel borgo è il luogo del ritrovamento e dell’agnizione delle mie radici».

Chi sognava di diventare mentre entrava nelle vite degli altri?

«Uno psicanalista, ma i miei mi volevano insegnante. L’occhio e il registro analitico l’ho coltivato comunque, la passione per la psicanalisi pure tanto che è diventata la mia skill più profonda, anche sul lavoro».

Suo padre, chef all’ambasciata inglese a Roma, ha cucinato anche per la Regina Elisabetta II.

«Papà Filippo era il secondo di otto figli, tutti maschi tranne una femmina, zia Rosina. Vennero mandati molto giovani nel napoletano, a formarsi nelle cucine di tradizione post Borbonica. Alcuni dei miei zii divennero ristoratori – uno a Caracas aprì il ristorante Rugantino -, altri cuochi nelle ambasciate. Papà finì in quella inglese, dove si ritrovava a preparare grandi ricevimenti, compresi quelli per Elisabetta II. Io e mio fratello lo aiutavamo ai tempi dell’università, ma lui era portato, io invece un disastro. Infatti non so cucinare nulla ma c’è chi lo fa per me con grande amore».

Sua mamma è morta quando lei aveva 30 anni. Qual è il tratto distintivo che ha ereditato?

«Il grande sacrificio, la quota “doveristica” che prevale sul piacere. Nei mesi terminali ho provato a strapparle un messaggio di maggior leggerezza ma fino all’ultimo Gabriella è stata granitica: mai compromessi, mai ambivalenze, grande rigore. Forse per questo nella vita sono un disastro, mentre nel lavoro sono macchina da guerra: quando chiudo alle spalle la porta di casa, devo sapere di aver fatto bene il mio compito».

Lei si considera un uomo di potere?

«Vengo guardato come un uomo cui il potere interessa poco e corrisponde abbastanza alla verità. Ma sono molto potente quanto ad autorevolezza: nessuno può riuscire a portarmi in una direzione in cui non sono convinto. Il compromesso, anche creativo, non m’interessa: ogni operazione deve avere un senso e un’efficacia, perché so dove voglio arrivare. E questo lo considero un potere professionale, non identitario».

Meglio essere rispettati che temuti?

«Non sempre. Ma quando arrivi ad un ruolo apicale ti riappacifichi con la sensazione profonda di non poter piacere a tutti. Tutto viene letto con la lente d’ingrandimento, c’è sempre una quota di chi ti ascolta che non ti comprende. Quello del direttore è un ruolo molto meno narcisistico di ciò che si pensa».

Tra tre giorni comincia Sanremo. In una vigilia stretta tra elezioni presidenziali e Covid, manca il guizzo polemico. Tranne che per la scelta di Drusilla Foer, che co-condurrà il giovedì sera con Amadeus.

«Drusilla è una scelta del direttore artistico Amadeus che ho condiviso pienamente perché è una grande artista e a Sanremo farà vedere cosa sa fare, per altro riportando alcuni elementi dell’intrattenimento che abbiamo perduto. In lei c’è lo spettacolo e la narrativa, poiché incarna un personaggio che racconta una vita in maniera talmente ammaliante e geniale che guardandola non ci si chiede né l’orientamento sessuale, né se sia un artificio scenico o un dato realistico».

L’en travesti nel 2022 fa ancora scandalo?

«Nel 2022 la Rai deve mettere al primo posto il codice dell’inclusione oltre alla credibilità, anche nella messa in onda. E poi qui parliamo di arte, di un’artista che segue i grandi archetipi della storia dello spettacolo. Vogliamo ricordare cosa faceva l’immenso Paolo Poli? Lo vidi quando portò in scena gli Aquiloni di Pascoli riadattandolo a modo suo: ecco, riappropriamoci dello stupore del fanciullino pascoliano, divertiamoci. In scena si gioca con il travestimento e giocare non vuol dire in alcun modo veicolare alcun modello».

A proposito di inclusione, lei è stato spesso criticato e persino attaccato sul piano personale per alcune scelte fatte in questi anni.

«Non valuto mai le persone per il loro orientamento sessuale, guardo l’anima e la professionalità. Chi mi attacca non sa che nelle mie scelte non c’è mai un approccio soggettivo, ma oggettivo».

Torniamo su Sanremo. Lei usa spesso l’espressione “codice identitario”: quello di Amadeus qual è?

«Amadeus è una persona risolta, sia sul piano umano che professionale. Non ha bisogno del consenso del pubblico che lo acclama per esistere, perché ha una vita piena e perché ha la forza di chi ha fatto la lunga gavetta. Non lo conoscevo prima, ora abbiamo un rapporto di stima sincera».

Sveli l’arcano: Fiorello ci sarà?

(silenzio) «Chissà. Io mi diverto molto con lui, lo sento un pezzo di famiglia anche se ci vediamo poco. Mi auguro che arrivi perché è un condensato di umanità e un modello creativo e professionale. E poi con lui il codice dell’imprevedibilità è assicurato».

Annuncerete i conduttori dell’Eurovision durante Sanremo?

«Sì, li annunceremo».

Si parla di Laura Pausini, Cattelan e Mika.

«Non le dirò nulla se non che abbiamo concluso il lavoro della selezione dei conduttori e che sono contento della scelta fatta».

Veniamo alla novità di Rai1. Ci sarà una sera dedicata a Raffaella Carrà diretta da Sergio Japino?

«Sì, il 21 maggio, ma i conduttori non li abbiamo individuati. Sono stato io a riportarla in tv, con A raccontare comincia tu, su Rai3: sono stato tenace nel corteggiamento e lei si è fidata. Considero una fortuna averla conosciuta e, in punta di piedi, aver costruito un rapporto profondo. Mi ha consegnato stima e amicizia e per me è stato un dolore enorme perderla».

Da un’icona a un’altra icona, Loretta Goggi. L’ha convinta a realizzare uno show?

«Ci sono stati alcuni incontri a tu per tu con lei e ho chiaro quale potrebbe essere la chiave di un suo ritorno di Rai1. Sarà uno dei punti fondativi della Direzione Intrattenimento che partirà formalmente a settembre».

Nel dopo Sanremo rivedremo Canzone segreta?

«Ci stiamo ragionando, anche su una possibile nuova conduzione dal momento che la brava Serena Rossi è ormai impegnatissima con la fiction. Di sicuro ci sarà Amadeus con la versione family di Affari Tuoi: il game sarà lo stratagemma per raccontare le famiglie, anche quelle allargate».

Altre novità?

«Un nuovo titolo dedicato all’ambiente, in primavera. Attraverso l’intrattenimento vogliamo parlare di sostenibilità e green: alla conduzione cerco di pensare anche a dei personaggi nuovi. In tarda primavera tornerà anche l’affidabilissimo Carlo Conti, sempre in prima serata, probabilmente con un titolo nuovo».

Del daytime di Rai1 lei è particolarmente orgoglioso: ha visto che anche Canale5 punta sempre di più sui giornalisti?

«La mia è stata una scelta precisa: scegliere tutti volti capaci di una doppia anima, tra approfondimento e intrattenimento, dalla Daniele a Matano, dalla Giandotti alla Bortone passando per la Clerici e da Mara Venier alla Fialdini, dalla Autieri a Liorni al trio Timperi Setta e Muccitelli nel weekend. E vedo che quel modello è stato monitorato da Canale 5. Questo gioco di community, come lo chiamo io, ha funzionato e può avere lunga vita: tutti i marchi sono di due punti sopra rispetto alla scorsa stagione».

Roberta Capua tornerà a Estate in diretta?

«La scelta dei palinsesti dal 15 giugno sarà ad opera dei direttori di genere, dunque in questo caso sceglierà Antonio Di Bella. Roberta è naturale, matura, ha una napoletanità insolita. Spero venga confermata».

Il suo grande sogno?

«Scrivere la storia della mia vita, visto che ha saputo sorprendermi molto. Scrivo bene, me lo riconosco da solo, e la scrittura mi mette a fuoco, mi dà equilibrio. Ho già in mente titolo e già ho scritto delle cose. La mia idea di lavoro ruoterà intorno alla parola “diseredità”: vorrei parlare alle generazioni più distanti da me con una storia di forza, di dolore ma anche la libertà, che per me è una parola essenziale nel vocabolario. I programmi passano, un romanzo resta. Spero di poterlo fare al più presto».

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