mercoledì, 27 Novembre 2024
I medici dei Pronto Soccorso contro quelli di famiglia
Mentre i medici di medicina generale proclamano lo stato di agitazione perché stanchi di sostenere i ritmi della burocrazia Covid (mail, telefonate, messaggi e certificati) i medici di emergenza urgenza ogni giorno sono alle prese con milioni di malati che affollano i pronto soccorso. Accessi il più delle volte impropri che congestionano le reti ospedaliere rallentando le attività di urgenza degli operatori. Per accesso improprio si intende un accesso non urgente che comporta una dispersione di risorse economiche e mediche a scapito delle casistiche effettivamente urgenti in termini di esiti e con un incremento dei tempi di attesa. Nel 2019 sono stati registrati 22 milioni di accessi non urgenti nei pronto soccorso d’Italia e che potevano essere gestiti dalla medicina territoriale.
«Con il massimo rispetto dei medici di medicina generale, alcuni fanno un lavoro fantastico, ma il numero dei pazienti che entrano in pronto soccorso inviati direttamente dal medico per un qualunque sintomo è spaventosamente alto. Il pronto soccorso è la via d’uscita per altri professionisti che non si fanno carico delle esigenze dei pazienti e dà sempre risposte, magari parziali, magari insufficienti ma la differenza è che noi non possiamo sottrarci alle richieste. Altri sì». ci spiega Fabio De Iaco presidente nazionale Simeu (Società italiana medicina dell’emergenza urgenza)
Come sarebbe il vostro lavoro senza gli accessi impropri nei pronto soccorso?
«Gli accessi impropri costituiscono un ostacolo continuo alla buona funzionalità dei nostri servizi. Qualche volta sono inevitabili, quando sono dovuti alla percezione dell’urgenza da parte del cittadino. In quel caso l’accesso è improprio dal punto di vista clinico, probabilmente, ma non dal punto di vista della richiesta di aiuto del paziente. Ma quando gli accessi impropri sono dovuti a carenze organizzative, quando si utilizza il Pronto Soccorso come scorciatoia per ottenere prestazioni».
Com’è cambiata la vostra vita lavorativa con la pandemia?
«È sempre più intensa e pesante: tutte le procedure si sono complicate con l’introduzione del doppio percorso (Covid e non Covid) che dobbiamo sempre garantire. La valutazione di ogni paziente è sempre più complessa. la diminuzione dei posti letto aumenta drammaticamente il fenomeno del “boarding”, cioè l’attesa del posto letto per ricovero in Pronto Soccorso (anche per giorni e giorni). Dobbiamo occuparci di pazienti che per noi avrebbero già finito l’iter di Pronto Soccorso, spesso assumendoci competenze che non sono nostre ma degli specialisti idonei. Il clima lavorativo è degenerato: noi siamo molto stanchi, non ci fermiamo da due anni, fronteggiamo sempre maggiori necessità che aumentano con il diminuire degli organici. Aumentano i turni, le ore. La gente non di rado si mostra diffidente: il clima sociale evidente sulla pandemia si riflette anche nel lavoro quotidiano».
Quanto ore lavora un medico in pronto soccorso?
«L’orario di servizio è di 38 ore/settimana, come tutti i medici ospedalieri. Ormai è diffusissimo che si facciano dalle 5 alle 7 notti di guardia al mese (gli inglesi lo chiamano orario “antisociale”).Inoltre moltissimi di noi accumulano molte ore di straordinario, che il più delle volte non vengono pagate, così come giorni e giorni di ferie che non vengono fruite nei termini previsti».
Quanto guadagna un medico di emergenza urgenza?
«Inizia con circa 2800 euro netti al mese, poi sale fino a una media di 3500 lo stipendio è tutto quel che guadagna un MEU. I Colleghi dell’Ospedale hanno la possibilità della libera professione. Per noi non esiste. E questo è un discrimine importante, soprattutto andando avanti con l’età lavorativa. Se si somma l’intensità del lavoro, la gravosità psico-fisica, l’usura delle notti e dello stress, la possibilità di aggressioni, si comprende come esista di fatto una disparità di trattamento rispetto a tanti altri Colleghi».
Cosa ne pensa dello stato di agitazione dei medici di medicina generale ?
«Credo che sia nel loro pieno diritto e non combatto nessuna battaglia che divida i professionisti ma un po’ li invidio: loro possono entrare in stato di agitazione, possono scioperare. Hanno strumenti che gli permettono di farsi sentire e di far pesare il loro ruolo. Noi dell’urgenza non abbiamo niente di simile. Ci siamo sempre (guai se così non fosse!). Ma continuiamo a lanciare appelli che ci si può permettere di non ascoltare: provi a pensare se ci fermassimo tutti anche solo per un’ora. Sia chiaro, nessuno di noi pensa di farlo: sappiamo bene di essere un servizio essenziale, vitale per la salute dei cittadini. È nella natura stessa del nostro lavoro. Ma è pazzesco che la nostra assoluta essenzialità possa diventare la nostra debolezza, quando non troviamo strumenti efficaci per ottenere attenzione».
Perché di un fatto così importante come quello degli accessi impropri se ne parla così poco? Cosa dice l’ordine dei medici?
«Tutte le volte che chiediamo aiuto ci sentiamo rispondere che si intende agire sugli accessi impropri: è giusto, naturalmente, ma non basta. Gli accessi impropri non sono il problema principale: fanno confusione, creano ostacoli, magari proteste. Ci impegnano anche per ore che vengono sottratte ai pazienti che invece hanno maggior bisogno di noi. Ma un accesso improprio alla fine viene dimesso, proprio perché improprio. Il vero problema sono gli accessi seri, quelli che hanno necessità di ricovero e che non trovano spazio in ospedale: è lì che il sistema mostra tutta la sua insufficienza. Chi non ottiene il posto letto che merita paga in termini di disagio, lunghe o lunghissime attese in barella in Pronto Soccorso, un’assistenza che certamente non è quella di un reparto, l’assenza della competenza specialistica che spesso merita. Il fenomeno del “boarding” ha una ricaduta negativa sulla lunghezza del successivo ricovero e anche sulla mortalità: sono evidenze scientifiche. Concentrarsi sugli accessi impropri spesso ha significato riversare nuove risorse economiche su altri soggetti (non certo i pronto Soccorso): ma non abbiamo mai visto un reale decremento di quegli accessi».