Biden sull’Afghanistan fa peggio di Trump

Joe Biden ha intenzione di completare il ritiro delle truppe americane dall’Afghanistan entro il prossimo 11 settembre. A riportare la notizia è stato il Washington Post. Ricordiamo che, al momento, sono presenti sul territorio circa 2.500 soldati statunitensi. Al di là della data simbolica, il senso di questa mossa – che dovrebbe essere formalizzata nella giornata di oggi – è più profondo e concreto. In base all’accordo stipulato dall’amministrazione Trump con i talebani, Washington avrebbe dovuto ultimare il ritiro dei propri militari dall’area entro l’inizio di maggio. Una deadline, che ha suscitato un serrato dibattito, in questi mesi, all’interno della nuova Casa Bianca. Biden si è infatti ritrovato costretto a barcamenarsi tra due linee antitetiche.

Da una parte, i falchi non vogliono saperne di un ritiro, temendo che l’assenza statunitense possa riportare l’Afghanistan ad essere un ricettacolo di terroristi. Dall’altra parte, le correnti più a sinistra del Partito democratico chiedono di rispettare i termini dell’intesa negoziata da Trump: non dimentichiamo che parte significativa dell’elettorato americano si dica contraria alle cosiddette “guerre senza fine”. Guerre di cui l’Afghanistan è diventato una sorta di archetipo: si tratta infatti del conflitto più lungo in cui gli Stati Uniti sono rimasti invischiati nel corso della loro storia (è iniziato nell’ottobre del 2001). Un conflitto che, secondo il New York Times, è costato circa duemila miliardi di dollari, con 2.400 militari americani morti. Un conflitto che, per inciso, non ha portato – dopo tutto questo tempo – a una stabilizzazione effettiva della regione (non sarà un caso che forti preoccupazioni in questo senso vengano nutrite anche da Russia, India e Cina). I dilemmi di Biden nell’area non sorgono quindi soltanto a causa di una situazione ormai impantanatasi da anni (e da cui Trump aveva, pur difficoltosamente, cercato di uscire). Ma riflettono anche le tensioni interne a un partito, quello democratico, più diviso che mai sulla questione.

Ecco che dunque la recente mossa di Biden, più che una scelta chiara, rischia di rivelarsi una sorta di compromesso provvisorio. Ritardare di qualche mese la deadline ufficiale del ritiro completo permette al presidente di restare (seppur faticosamente) in equilibrio tra i falchi e i fautori dell’abbandono. Il punto però è che non si tratta di una vera soluzione, perché il problema viene soltanto spostato (un poco) più avanti nel tempo: con tutti i rischi che una simile strategia attendista comporta. I talebani hanno fatto sapere di essere intenzionati a riprendere gli attacchi contro il personale americano e Nato, se il ritiro non avverrà entro maggio. Dall’altra parte, le pressioni interne della sinistra democratica si faranno prevedibilmente sentire. Tutto questo, senza contare il segnale problematico che viene dato a livello internazionale: quello, cioè, di una superpotenza fondamentalmente indecisa, che non ha una strategia effettiva da seguire. Per quanto oggettivamente difficile, Biden avrebbe infatti dovuto prendere una scelta netta e chiara, in un senso o nell’altro. Restare in mezzo al guado non solo non lo aiuterà ad uscire da questa situazione, ma indebolirà anche la posizione americana nel Paese e agli occhi della comunità internazionale.

Non sarà del resto un caso che, soprattutto negli ultimi mesi, la Russia abbia rilanciato il proprio ruolo di mediatrice nel processo di pace afghano: non soltanto, a marzo, ha ospitato una conferenza di pace in tal senso, ma la questione è stata anche affrontata nel recente viaggio del ministro degli Esteri russo, Sergej Lavrov, in India e in Pakistan. E proprio Nuova Delhi e Mosca potrebbero ritagliarsi uno spazio per tentare di stabilizzare, nei prossimi mesi, il complicatissimo scacchiere afghano. Con il rischio, per Washington, di diventare sempre più marginale.

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