È arrivata l’ora del divorzio «senza colpa»

L’iconografia delle separazioni, ogni qualvolta un quotidiano debba pubblicare un articolo a riguardo, consiste nell’immagine di un marito e di una moglie che si puntano reciprocamente il dito con sguardo truce. Come a dire: “è colpa tua se siamo a questo punto”.

Siamo tutti ancora culturalmente legati al fatto che quando un matrimonio finisce debba essere necessariamente colpa dell’uno o dell’altra.

Già da tempo, però non è così e molti Stati hanno eliminato questo principio.

La nuova legge che sta per essere varata in Inghilterra e Galles – con imperdonabile ritardo – costituisce nulla più che il ‘minimo sindacale’ di un sistema giuridico che libera il matrimonio dalla gabbia della colpa, retaggio antico quanto ingiusto che, fuori dai casi del comune consenso allo scioglimento del vincolo, obbliga il coniuge che intenda separarsi a dimostrare un comportamento dell’altro contrario ai doveri matrimoniali (violenza, adulterio, ecc. ecc.).

Altrimenti rimane prigioniero, come nel caso di Margareth (nome di fantasia di una vicenda reale), che sono 20 anni che vorrebbe divorziare dal marito ma non riesce a dimostrarne le colpe, semplicemente perché la loro vita matrimoniale è diventata noiosa e non più soddisfacente, presupposto non ritenuto sufficiente dai giudici britannici: non vi è chi non veda come questo meccanismo sia inaccettabile e confligga con i diritti primari dell’individuo.

D’altra parte, che lo UK sia arretrato sotto questo profilo, lo dimostra l’esperienza dei suoi fratelli minori (si fa per dire), gli USA, dove il divorzio – nella stragrande maggioranza degli Stati dell’Unione – è “NO FAULT“, non presuppone cioè colpa e nemmeno l’accerta: semplicemente non rileva.

In Italia abbiamo un sistema misto, dove per separarsi è sufficiente la volontà di porre fine al matrimonio, senza necessità di dovere per forza attribuire all’altro una colpa specifica.

L’intollerabilità del matrimonio, insomma, è una condizione soggettiva che non deve essere accertata nel concreto dal Giudice: non si fa d’accordo, ci si separa.

E tuttavia in Italia esiste l’addebito, istituto di antica origine tutt’ora vigente, che permette a un coniuge di procurarsi – nei confronti dell’altro – una sorta di ‘lettera scarlatta’, l’addebito appunto, ossia la dichiarazione che la crisi matrimoniale sia a questi imputabile in virtù della violazione di uno dei doveri caratteristici del matrimonio, ossia la coabitazione, la collaborazione, l’assistenza morale e materiale, la fedeltà, soprattutto (leggasi ‘corna’).

La sua rilevanza è sempre più secondaria (ha importanza soprattutto quando rivolto alla moglie, perché questa – in caso di addebito – perde il diritto ad avere il mantenimento) tant’è che da molti anni si sono sollevate voci e proposte di legge per eliminarlo definitivamente, adeguandosi alla legislazione nordamericana e di tantissimi altri Paesi dove le responsabilità individuali non contano.

La percentuale di separazioni con addebito, in Italia, è minoritaria.

Da un lato, infatti, prevalgono le separazioni consensuali (l’80-85% dei casi), frutto di accordi fra i coniugi: tra i procedimenti contenziosi, solo un numero residuo di essi si conclude con la pronuncia di addebito, circa il 15% secondo statistiche.

Ben venga che i figli di Albione si siano adeguati a regole e principi più umani e moderni, ma uno scatto in più sarebbe opportuno anche in Italia, non avendo senso ancorarsi ad un istituto arcaico che ormai viene utilizzato come mero pretesto per gridare ai quatto venti: “era colpa sua”.

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