Radu e l’ultima moda del calcio, le «papere» dei portieri

Ionit Radu è stata solo l’ultima vittima in una settimana che ha visto cadere anche un monumento con Buffon e una giovane promessa come Meret. Portieri sacrificati sull’altare del nuovo calcio che chiede loro di non staccare mai e di specializzarsi nell’interpretazione multiruolo del proprio lavoro, dove la qualità del gioco di piede diventa quasi più importante di quello che si è capaci di fare tra i pali. Che piaccia o no, è la frontiera della tattica negli anni Venti del nuovo millennio. Non lo chiede solo qualche allenatore innamorato della ripartenza dal basso, lo pretendono ormai tutti convinti che i vantaggi siano superiori agli svantaggi, anche a costo di incassare qualche gol evitabile, piangere e ricominciare.

Radu è caduto vittima e con lui si sono bruciate le speranze scudetto dell’Inter, ora legate all’ipotesi remota di un suicidio sportivo del Milan che ha il destino saldo nelle proprie mani e un calendario sulla carta difficile ma nella realtà, forse, meno complesso di quanto appaia. La paperissima di Bologna del portiere di riserva nerazzurro è destinata a lasciare traccia nella storia di questo campionato e ad essere ricordata come uno dei grandi scivoloni della storia del calcio italiano. E’ stata tutta e solo colpa sua? O qualcuno poteva evitare che il portiere romeno arrivasse fino al liscio fatale?

Il dibattito è aperto da mesi e non coinvolge solo Simone Inzaghi e l’Inter, accusati di giocare un calcio Anni ’60 da una leggenda come Arrigo Sacchi, eppure lontanissimo dall’idea di speculazione e catenaccio riletta in senso critico, a volte dispregiativo. Radu ha sbagliato ma più di lui è colpevole la radicalizzazione dell’idea dell’azione manovrata a qualunque costo, quella che ha spinto i suoi compagni a servirgli quel pallone in un corridoio strettissimo fidando sulla sua capacità di addomesticarlo e rigiocarlo. Una fiducia cieca e mal riposta, in Radu e in tutti gli altri: condannati a non sbagliare mai perché il liscio del portiere interista accade altre decine di volte in una stagione in altre zone del campo, lo firmano calciatori molto più specializzati di lui nel lavorare il pallone, eppure alla storia resteranno solo le sue lacrime al Dall’Ara.

L’Inter si è fatta scivolare dalle mani lo scudetto per colpa e non per sfortuna. Al di là dell’errore capitale che ha condannato alla sconfitta di Bologna, la squadra di Inzaghi non è stata capace di vincere l’ansia crescente con lo scorrere del tempo, non ha dominato la paura e si è infranta su Skorupski e su quel sottile vetro che ha protetto la porta del Bologna nella seconda parte della sfida. La sconfitta è anche casuale, come spesso capita nel calcio. Il modo in cui è stato approcciato un match fondamentale, no. Aver concluso molto più degli avversari è un dato, non una strada per sollevarsi dalle proprie responsabilità.

Cosa accadrà da qui alla fine della stagione? Impossibile prevederlo con certezza dentro un campionato che ci ha abituato a mille ribaltoni. C’è, però, un dato chiarissimo: non esiste in Italia una squadra dominante, che comandi per distacco sulle altre e che sia destinata a prescindere a essere più forte anche dei propri errori e dei propri passaggi a vuoto. Anche per questo la papera di Radu è definitiva; dentro un equilibrio così ogni dettaglio conta. Aver gettato al vento tutto inseguendo un modello unico, quasi ideologico, assomiglia tanto a una sentenza definitiva.

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