Il fallimento della marina russa e la (mancata) lezione delle Falklands

I fallimenti della Marina militare russa avvenuti alla metà di aprile con l’affondamento dell’incrociatore Moskva, più recentemente con il danneggiamento della Ammiraglio Makarov, infine con la distruzione di una dozzina tra unità di trasporto mezzi e motovedette, costituisce la prima vera battaglia navale da quarant’anni a oggi, ovvero dalla guerra delle Falklands, quando Regno Unito e Argentina bersagliarono le rispettive flotte facendo colare a picco l’incrociatore argentino Belgrano (silurato dal sommergibile Conqueror), e quello inglese Sheffield, quest’ultimo colpito da un missile Exocet lanciato da un velivolo Super Etendard. Alla fine del conflitto gli inglesi avevano perso due cacciatorpediniere e gli argentini sei unità.

Il 4 maggio 1982, due giorni dopo l’affondamento della Belgrano, l’aviazione argentina attaccò con due aerei ai comandi del capitano Augusto Bedacarratz e del tenente Armando Mayora. I velivoli erano armati ognuno di un solo missile Exocet e in totale gli argentini ne possedevano soltanto cinque. A localizzare lo Sheffield fu un pattugliatore aereo Lockheed P2, che lo identificò mentre era in posizione avanzata insieme con la gemella Glasgow e alla corvetta Coventry. Fu la Glasgow a captare per prima i radar di scoperta degli Etendard quando erano a circa cento chilometri di distanza, dando l’allarme all’ammiraglia Invincible, centro di comando inglese e di coordinamento delle capacità anti aeree. Ma questa per divulgare l’allarme a sua volta ci mise alcuni minuti e i missili lanciati dagli aerei, che avevano volato radenti sull’acqua innalzandosi soltanto al momento di lanciare, centrarono l’incrociatore. Morirono 24 marinai, la nave fu abbandonata e bruciò per giorni fino ad affondare. Da quel momento nelle accademie navali dei Paesi occidentale si studia la vicenda per spiegare l’importanza della scoperta radar avanzata a protezione d’ogni convoglio. Tuttavia per i successivi quattro decenni le marine occidentali hanno operato praticamente senza rivali colpendo dal mare a terra: afgani, iracheni e siriani non possedevano missili da crociera come il Neptune, che poi altro non è che la versione migliorata (del 2015) dello Kh-35 russo, anch’esso progettato in Ucraina prima della dissoluzione dell’Urss. Ma è evidente che in futuro non sarà sempre così, e che – ci auguriamo di no – la prossima battaglia navale potrebbe accadere nello scenario del Mar cinese meridionale. Ma i russi per ricordare una simile perdita devono tornare alla Seconda guerra mondiale. Ecco dunque che quanto avviene oggi nel Mar Nero costituisce una lezione per le Marine militari di tutto il mondo. Intanto è evidente che le navi russe costruite negli anni Ottanta hanno diversi punti deboli, taluni costruttivi, altri relativi alla preparazione degli equipaggi. La prima considerazione è di tipo tecnico: le attuali navi occidentali da guerra hanno più compartimenti stagni a protezione delle postazioni operative e delle riserve di carburante e munizioni. Un’altra lacuna è la mancanza di tecnici professionisti di livello medio negli equipaggi. Se paragoniamo quelli di Mosca con quelli Nato, questi hanno un buon numero di sottufficiali con anni d’esperienza che guidano i marinai giovani. I russi hanno invece un numero più alto di marinai e di ufficiali, ma poche figure intermedie. La conseguenza è una catena di comando meno efficace che può funzionare nelle esercitazioni ma che mostra i suoi limiti in combattimento. Nella vicenda della Moskva la prontezza della nave a difendersi da due missili da crociera Neptune in arrivo (a guida radar, quindi attratti dalle emissioni più che dall’eco della nave) è stata imperfetta. Non sappiamo se ciò sia stata causa di una guardia negligente – il che significa che i marinai non erano nelle stazioni di combattimento previste – o se le difese antiaeree della nave fossero insufficienti. Con ogni probabilità una combinazione di entrambi i fattori. Certamente la procedura di controllo e gestione dei danni è stata insufficiente. Su una nave da guerra Nato l’equipaggio è organizzato nelle rispettive stazioni di battaglia localizzate in tutta l’unità con squadre equipaggiate e addestrate per intervenire in caso di incendi, allagamenti, avarie elettriche, eccetera. Da ciò che sappiamo pare che l’equipaggio della Moskva non è riuscito a contrastare l’attacco in arrivo per limitare i danni e neppure a controllare la combinazione di incendi e allagamenti che hanno seguito le esplosioni. La Moskva era anche il centro comando e controllo della flotta del Mar Nero e gli ucraini pensavano che questa si stesse preparando per un attacco o un assalto anfibio al porto di Odessa. Colpirla significava quindi mettere fuori uso i missili da crociera che avrebbe potuto lanciare. La perdita di una singola nave, per quanto importante non è catastrofica, ma è un precedente per altre unità, dopo che anche una nave da sbarco con a bordo diversi carri armati era stata affondata venti giorni dopo l’inizio della guerra. Ora la Marina russa è divenuta cauta nell’avvicinarsi alle coste ucraine, non a caso dopo il danneggiamento della Makarov gli ucraini hanno colpito due motovedette mentre erano ferme in banchina. Sappiamo che gli Usa forniscono informazioni e dati agli ucraini, ma probabilmente se i radar navali russi sono carenti non è soltanto a causa della loro tecnologia. Probabilmente le unità sono bersagliate da segnali di guerra elettronica che questi non riescono a eliminare. Per la Nato quanto sta accadendo è dunque una lezione sulla vulnerabilità delle unità di superficie – comprese le portaerei, il cuore delle marine militari di Usa e Francia – a missili da crociera relativamente moderni. E certamente dopo questi fatti anche i russi cambieranno strategia.

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