Libano alla vigilia delle elezioni che non cambieranno nulla, tra crisi e sfiducia

La crisi morde, il Paese è in default, schiacciato sotto il peso dell’indebitamento. Il Libano, la “perla del Mediterraneo”, e la sua capitale Beirut, famosa per le luci che la illuminavano prima che sprofondasse nel baratro a causa della corruzione della classe dirigente, dei debiti in valuta estera e della complessa situazione geopolitica, si sono trasformati in un buio agglomerato di palazzi, all’ombra dei quali matura la ribellione della popolazione.

I cittadini accusano la politica dello stato delle cose ma non avanzano proposte innovative o candidature in grado di cambiare il sistema. Le elezioni, previste per il prossimo 15 maggio, avrebbero potuto essere il giusto banco di prova per la “thaoura”, il movimento di contestazione nato nell’ottobre 2019. Ma le liste collegate alla rivolta popolare non hanno avuto la forza di coalizzarsi e si sono disperse in mille rivoli, senza riuscire a portare alle elezioni una proposta coesa e credibile. E’ in questa atmosfera che il Libano si avvicina al voto.

Gli attori sulla scena sono i soliti di sempre e non è d’aiuto, al tentativo di scardinare alcune vecchie figure, il sistema confessionale che regola la tripartizione dei poteri, rendendo l’intero impianto sul quale il Paese poggia parzialmente “ingessato”. L’obbligo di rappresentanza per i principali gruppi confessionali, attraverso leader spesso autoproclamati o comunque entrati in scena grazie a reti clientelari, viene additato come uno dei fattori che impediscono l’emergere di nuove figure. “Sono responsabili tutti”, dice Hassan, commerciante del suq di Tiro. Con questa espressione omnicomprensiva, “tutti”, il libanese medio si riferisce all’insieme dei leader politici e partiti, incluso Hezbollah, accusato di aver partecipato con il suo ramo politico – dopo aver rappresentato agli occhi di molti cittadini una forza di liberazione – agli stessi compromessi, alle coalizioni alle quali imputava la corruzione. Quella corruzione di massa che ha permesso lo stoccaggio di esplosivi al porto per sei anni e che rende ancora difficile individuare i responsabili della devastazione che ne è conseguita. Quest’ultimo evento, insieme al Covid-19, è stato solo uno dei duri colpi che hanno aggravato una situazione già in bilico. Negli ultimi due anni la lira libanese ha perso, secondo le stime, almeno il 90% del suo valore e circa l’80% dei cittadini vive oggi sotto la soglia di povertà. Il Covid e la crisi hanno finito poi con l’affossare uno dei settori cardine del Paese, il turismo. I giovani, che sarebbero la molla della ripartenza, hanno risentito della disoccupazione dilagante e quelli con una formazione migliore emigrano, soprattutto verso gli Stati Uniti. Il momento è cruciale anche perché sarà proprio il prossimo Parlamento ad eleggere il futuro presidente della Repubblica: il mandato di Michel Aoun scadrà il 31 ottobre prossimo.

Nel Sud del Libano lo scenario è reso ancora più complesso dalle ricadute dirette, nell’area, del conflitto con Israele che favorisce da sempre a livello politico, Hezbollah e Amal. Amal, con i suoi legami con Iran e Siria, nemici storici di Israele, gode di ampio consenso in un’area caratterizzata dagli scontri continui. Hezbollah, dal canto suo, tenta di riconquistare il cuore dei cittadini, oltre che facendo leva sulla sua storica “resistenza” contro Israele, con azioni a sostegno della popolazione, provata dalla guerra. Il contesto a Sud del fiume Litani, così pesante per i rapporti geopolitici con i “vicini”, è una polveriera che rischia ogni momento di esplodere, ma si riesce a mantenere un equilibrio grazie alla presenza della missione Unifil dll’Onu nata nel 1978 dopo l’invasione del Libano da parte di Israele. La missione oggi ha il compito di monitorare eventuali violazioni della linea armistiziale rappresentata dalla Blue Line, “limite” che demarca (dal 2000, grazie all’intermediazione delle Nazioni Unite) i due Paesi nemici.

Mezzo Onu in missione lungo la Blue Line(Daniela Lombardi)

Infinite e reciproche provocazioni, assieme a contese su pochi centimetri di terra, si sono tradotte di recente nella costruzione di un nuovo muro da parte degli israeliani. Un muro ancora incompleto ma che ripercorre l’andamento della technical fence, la rete protettiva che già Israele aveva elevato nel suo territorio come protezione “rafforzata” dei confini segnati dalla Blue line contro gli attacchi provenienti dal Libano. Il muro è alto 9 metri ed ha lo scopo, secondo gli israeliani, di prevenire le incursioni del braccio armato del “Partito di Dio” verso Israele. Il comandante del Sector West dell’Unifil affidato all’Italia, il generale di brigata Massimiliano Stecca, parla delle tensioni lungo il confine israelo-libanese come di una “stabile instabilità”. “E’ una situazione in cui dobbiamo fare da forza di interposizione, creando un “cuscinetto” per prevenire incidenti che possono poi degenerare e riaccendere il fuoco che cova sotto la cenere. La collaborazione con il territorio è proficua, la nostra missione in favore della pace è riconosciuta come valida anche dalla popolazione e, in effetti, funziona: da quando controlliamo la Blue Line gli equilibri si mantengono pur in presenza di una situazione così articolata. Insieme alla parte operativa di controllo e pattugliamento della linea armistiziale, che è quella che ci compete in base alla risoluzione Onu che ci ha inviati qui, curiamo il rapporto con la popolazione grazie a progetti in materie come la sanità o il settore energetico”. Il sindaco di Tiro, Hassan Dabouk, espressione di Amal, conferma che in questo momento in cui la scarsità nelle forniture di carburante non riesce ad assicurare più di qualche ora di illuminazione al giorno ai cittadini e il governo è latitante, il contributo delle cellule Cimic (Cooperazione civile e militare) dell’Unifil è fondamentale. “La mancanza di risorse energetiche sta avendo una ripercussione drammatica sulle condizioni di vita dei libanesi. Ne stanno risentendo tutte le attività. Nel settore dei trasporti il prezzo del carburante ha fatto schizzare alle stelle quello di materie prime e viveri. I ragazzi vanno via e non c’è ricambio generazionale, anche i miei figli sono andati in America e mia figlia, nonostante sia laureata, si è ritirata a fare la madre di famiglia”. Si capisce, dal quadro generale, che ruolo abbiano i gruppi elettrogeni a cui un libanese medio non riesce ad accedere se non a costi esorbitanti, predisposti grazie agli italiani nel Sector West, che danno luce a strade e a strutture pubbliche come il palazzo della stessa municipalità di Tiro. Di una missione che ha fatto “ciò che dovrebbe fare il Governo” parla anche il sindaco di Cana, Mohamad Kresht, col quale il contingente italiano ha in itinere progetti sanitari (come la fornitura di attrezzature mediche per l’ospedale cittadino) e di cooperazione in materia culturale. La cultura costituisce infatti un settore che fa da volano per il turismo: risorsa indispensabile, in questo momento più che mai, per la ripresa del Paese.

Cana, terza città dell’area di Tiro, composta in maggioranza da musulmani sciiti ma nella quale è presente una folta comunità cristiana, si contende con l’omonima località israeliana il “titolo ufficiale” di luogo in cui Gesù ha compiuto il suo primo miracolo, quello della trasformazione dell’acqua in vino durante una festa di nozze. Le ricadute in termini turistici ed economici di questa contesa sono intuibili. “Qui abbiamo diverse testimonianze del passaggio di Gesù: da El Khammar, sito in cui sono conservate le giare usate per la conservazione delle bevande, alle grotte di El Dellafe in cui gli apostoli e Cristo riposavano nei viaggi da e verso Tiro e Sidone. La nostra è la vera Cana di Galilea descritta nelle Scritture, non quella dei vicini in Palestina (i libanesi, non riconoscendo Israele, non lo nominano mai ndr). Ma Cana è anche il luogo che ha visto il massacro di donne e bimbi che si erano rifugiati in un compound Unifil nel 1996 e poi di altri 27 civili nel 2006, entrambi avvenuti per attacchi israeliani. La pace tra noi non può esserci”. Una conferma, le parole del sindaco, delle ruggini alle quali nel Sud del Libano si deve fare fronte, con un sistema politico latitante in ogni ambito. Il quadro, insomma, pur deteriorato da anni, alla vigilia delle elezioni e con la crisi incombente è desolante. Una classe politica corrotta e divisa, cittadini esasperati che però non sanno agire per riparare i guasti della loro classe dirigente, giovani che non si buttano in politica per innovare ma preferiscono emigrare, una sfiducia nel governo che si traduce in fiducia verso chi viene visto come il vero difensore del Paese. Nessuna nuova vita per il Libano si intravede, a queste condizioni, dopo il passaggio cruciale delle elezioni.

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