venerdì, 15 Novembre 2024
Dopo la mezza riforma sulla giustizia, il disastro del referendum
Il referendum sulla giustizia è stato un disastro annunciato. Come già evidenziato su queste colonne qualche settimana fa vi era stato l’abbandono totale del tema da parte dei partiti per varie motivazioni, alcune comprensibili e altre meno. Molti in queste ore hanno aggiunto che se la corte costituzionale avesse ammesso i quesiti sulla cannabis e l’eutanasia il risultato sarebbe stato diverso. Forse, ma c’è da dubitare che anche in quel caso si sarebbe potuto arrivare al quorum del 50%+1. Quella sulla giustizia è stata una battaglia stanca: i partiti sono troppo impauriti per andare fino infondo mentre gli elettori sono rassegnati ad avere una giustizia fuori controllo, almeno fino quando la cosa non li tocca diversamente. E comunque questi sono troppo sfiduciati nei confronti della politica per potere credere in un cambiamento a mezzo delle urne. È questo il frutto di decenni di dibattito avvelenato sulle riforme istituzionali, oramai impraticabili del tutto salvo che non si tratti di soluzioni imposte dall’esterno (pareggio di bilancio, ambiente) oppure dettate dall’antipolitica (taglio dei parlamentari). Per riformare le Istituzioni in modo significativo – ed è il caso di una riforma ampia della giustizia – è necessario trovare un terreno reciproco, un linguaggio comune delle riforme entro cui muoversi. Oggi questo linguaggio è impossibile da generare perché le forze politiche non si legittimano e riconoscono abbastanza a vicenda o perché rappresentano interessi troppo eterogenei è radicalmente confliggenti. Una parte degli italiani continua a ritenere l’altra in qualche modo colpevole, sul piano morale, civile, economico e giudiziario. Dunque crede che sia meglio che i magistrati restino intoccabili e immodificabili al fine di moralizzare questa parte, di raddrizzare il legno storto degli italiani con il potere inquirente. Un’altra crede con ingenuità che si possa riformare una istituzione così corporativa e ambigua senza un grande accordo politico, se non di larghe intese quanto meno con un’ampia base parlamentare prima e popolare poi. La scelta del referendum ne è la testimonianza: una ennesima trovata spot poi abbandonata di fronte ad altre priorità politiche. Senza che il referendum, e la sua potenziale forza politica, fosse servito, per altro, ad accrescere le pensioni per una riforma più incisiva della magistratura. La riforma Cartabia è un compromesso a ribasso anche perché chi ha promosso il referendum ha scelto da quasi subito di non cavalcarlo. Un’ennesima improvvisazione, resa tale anche dall’atteggiamento conservatore delle più alte istituzioni italiane sul tema. Nessuno al Csm o alla Corte Costituzionale ha mai aperto veramente alla riforma, pur restando nei limiti di legge previsti per questi organi. Ma se ai promotori è andata male e le istituzioni restano immobili, non ne escono meglio i fautori del No e dell’astensione. Il Fatto Quotidiano, la Repubblica, il Movimento 5 Stelle, un gran pezzo del centrosinistra sono la cartina di tornasole del potere del corporativismo di toga, della moralizzazione giudiziaria della politica e di un conservatorismo di categoria senza idee né prestigio. Una difesa d’ufficio per interessi politici, con la consapevolezza politica e culturale di voler aggirare un problema – quello della disfunzionalità e della politicizzazione della magistratura – che è un vero e proprio “elefante nella stanza” del sistema istituzionale italiano. La vicenda del referendum è per tutti il segno di una classe politica che ha scelto di disinteressarsi della propria autonomia. Per opportunismo, per debolezza o per viltà. Ogni giorno, da decenni, tanto i cittadini comuni quanto il sistema politico e giudiziario continuano a pagarne un salato prezzo.