domenica, 24 Novembre 2024
Ddl Zan, crescono i dubbi del mondo gay e di sinistra
L’infuocato dibattito sul ddl Zan è andato forse un po’ oltre la (legittima) differenza delle posizioni in campo. È infatti invalsa, da parte di alcuni, una certa tendenza alla banalizzazione: una tendenza che taccia chi è contrario (o chi semplicemente ha dei dubbi) come una sorta di retrogrado oscurantista. Non solo: perché, in questo clima di banalizzazione, è passata anche l’idea che esistano due schieramenti monolitici e che la questione possa in definitiva essere risolta come l’ennesima battaglia tra destra e sinistra. In realtà, se si va un tantino oltre, la situazione appare vagamente più complessa. Svariate figure non certo ascrivibili al centrodestra hanno infatti espresso delle perplessità e delle riserve.
In questo senso si è, per esempio, recentemente pronunciata l’ex deputata del Pd, Anna Paola Concia.”Una legge di civiltà come questa dovrebbe necessariamente godere di un vasto consenso, e invece osservo che la legge Zan è divisiva e me ne dispiaccio. Mi aspetto che i promotori si adoperino per trovare mediazioni al rialzo che coagulino il consenso più ampio possibile”, ha dichiarato in un’intervista ad Avvenire. Una posizione che non si configura come una chiusura totale, ma che mette in guardia dal brandire alcuni temi delicati come una clava politica. Scetticismo è arrivato anche dal segretario del Partito Radicale, Maurizio Turco. “Sarà anche cambiato il mondo, ma io continuo a pensare che la repressione sessuale non si supera con la repressione penale”, ha affermato. La presidentessa di Arcilesbica, Cristina Gramolini, ha invece dichiarato: “Bisognerebbe emendare il ddl Zan seguendo una legge approvata dall’Emilia Romagna: la regione non finanzia le associazioni che propagandano la Gpa (gestazione per altri, ndr). Con il ddl Zan criticare l’utero in affitto viene considerato omofobia”.
Tutto questo, mentre la storica, Francesca Izzo, ha fatto notare: “Aver esteso il ddl Zan anche ai reati di misoginia e disabilità fa regredire le donne nel passato, le considera una categoria, una minoranza mentre siamo più della metà del Paese”. Una critica, questa, presente anche nella posizione della Concia. Alla ricerca di una sintesi tra le varie tesi si è mostrato invece il ministro per le Pari Opportunità e la Famiglia, Elena Bonetti. “Non ci si può permettere di spaccare il Paese soprattutto su temi che riguardano la dignità della persona. Siamo impegnati a trovare una sintesi. Proprio perché è necessario approvare la legge che sia la migliore possibile. Posizioni ferme di non dialogo non aiutano alla composizione delle posizioni”, ha affermato.
Insomma, si può vedere che, in realtà, il fronte dei critici (o comunque degli scettici) non sia così monolitico come qualcuno vorrebbe dare a intendere. Così come è anche evidente che le motivazioni alla base della perplessità siano a loro volta variegate. Esiste una questione femminista che, come abbiamo visto, non vuole che donne e disabili vengano considerati una minoranza. Esiste poi anche una questione liberale, che mette in luce i rischi sulla libertà di espressione. I fautori del ddl sostengono si tratti di un falso problema. In realtà la situazione è più complessa. L’articolo 4 recita infatti come segue: “Ai fini della presente legge, sono fatte salve la libera espressione di convincimenti od opinioni nonché le condotte legittime riconducibili al pluralismo delle idee o alla libertà delle scelte, purché non idonee a determinare il concreto pericolo del compimento di atti discriminatori o violenti”.
Non è quindi affatto chiaro come si stabilisca quali siano le condotte o le opinioni “non idonee”. Possono infatti esistere casi oggettivi in cui una condotta o un’opinione portino ad atti discriminatori o violenti (contumelie, espliciti incitamenti all’odio, ecc.). Ma ci sono anche casi in cui l’eventuale nesso causa-effetto non è affatto evidente. Il rischio quindi che il semplice dissenso si trasformi in un reato non è risibile. Magari non è questo l’obiettivo di chi propone la legge: ma, per valutare un ddl, non bastano le buone intenzioni dei proponenti. Bisogna semmai giudicarlo in quello che può essere il suo impatto concreto sulla società. Esiste infine anche una questione di libertà educativa: una questione cara al mondo cattolico ma anche a quello liberale. L’articolo 7 del ddl istituisce infatti la “Giornata nazionale contro l’omofobia, la lesbofobia, la bifobia e la transfobia”: una Giornata che, secondo il testo, andrebbe promossa anche nelle scuole. Non è tuttavia molto chiaro come ciò si coniughi con la suddetta tutela del “pluralismo delle idee” e della “libertà delle scelte”.
Tutto questo, per dire che gli approcci manichei andrebbero lasciati da parte; che le posizioni in campo sono più variegate di quanto una vulgata semplicistica vorrebbe; che, su questo ddl, esistono dei fondati dubbi: dubbi che, anziché demonizzati o moralmente squalificati, andrebbero affrontati con serenità. Perché non è a colpi di politicizzazione che si salvaguardano i diritti.