L’Isis era pronto a colpire alla maratona di Vienna. Segno di una rinascita pericolosa

Qualche giorno fa è emerso che se non fosse arrivata una soffiata all’intelligence di Vienna, la trentanovesima edizione della maratona della capitale austriaca che si è corsa il 24 aprile scorso, sarebbe passata alla storia per una strage di proporzioni difficilmente immaginabili. Alla vigilia della corsa alla quale hanno partecipato più di 30.000 appassionati provenienti da tutto il mondo, l’Ufficio per la protezione della Costituzione ha individuato nei dintorni della capitale grazie «all’aiuto delle autorità nazionali ed estere», una cellula dell’Isis formata da alcuni cittadini iracheni. Il gruppo stava progettando anche altre stragi da commettere in Europa ed in particolare alcuni grandi eventi erano stati messi nel mirino dai terroristi. Secondo il ministro dell’Interno austriaco gli arrestati sono «persone provenienti dall’Iraq che si dice abbiano svolto ruoli di primo piano nel periodo d’oro dell’Isis e che ora sono state reclutate per eseguire gli ordini di rinnovati attacchi da parte dei vertici dello Stato islamico in Europa. Hanno diversi status di immigrazione da diversi paesi europei». A proposito della maratona di Vienna il piano prevedeva che venissero piazzati sul percorso della gara vari ordigni esplosivi che sarebbero esplosi simultaneamente. Le autorità austriache sono convinte che gli arrestati siano membri di una rete terroristica che risiede stabilmente in Europa e che vede i suoi membri spostarsi di continuo con breve preavviso per tenere riunioni cospirative e le indagini hanno mostrato come che la rete terroristica utilizzava, tra l’altro, le funzioni di chat di alcuni videogiochi. L’attacco pianificato a Vienna doveva essere modellato sull’attacco terroristico alla maratona di Boston ( 15 aprile 2013), e il ministro dell’Interno Karner (ÖVP) nel confermare i fatti ha elogiato il lavoro degli inquirenti: «Il DSN ha dato un contributo decisivo alla lotta al terrorismo in Austria e ha dimostrato che dopo la riorganizzazione è riuscito a ripristinare la fiducia internazionale nella sicurezza dello Stato austriaco». I servizi segreti di Vienna erano finiti nella bufera con tanto di dimissioni eccellenti, dopo l’attentato nella capitale austriaca del 2 novembre 2020, quando il ventenne terrorista islamico Kujtim Fejzulai -con doppio passaporto austriaco e macedone- uccise quattro persone dopo aver aperto il fuoco sui passanti e i clienti di bar e ristoranti in diversi punti del centro della città, prima di essere abbattuto dalla polizia. Fejzulai, era già stato condannato a 22 mesi di carcere nell’aprile 2019 dopo aver cercato di entrare Siria per unirsi all’Isis a cui aveva giurato fedeltà. Ma già nel settembre del 2018 si era recato in Turchia sempre per tentare di andare la Siria, ma venne arrestato e rimandato in Austria, dove fu arrestato nel gennaio 2019. Da quel momento convinse le autorità austriache di aver abbandonato i propositi jihadisti sostenendo di frequentare dei corsi di de-radicalizzazione ai quali non si era mai fatto vedere. Gli credettero anche se andava in giro con una lunga barba e frequentasse un paio di moschee considerate estremiste e una serie di personaggi tra la Germania, la Svizzera e l’Austria tutti coinvolti nei circoli jihadisti che in seguito vennero tutti arrestati. Per tornare alla mancata strage di Vienna, da mesi i canali di riferimento delle maggiori organizzazioni terroristiche vedi Isis e al-Qaeda hanno aumentato gli appelli a colpire «gli infedeli» ed in particolare lo Stato islamico chiede «la Vendetta per i due Sceicchi», che i terroristi hanno lanciato in Iraq e Siria per vendicare la morte dei due califfi: Abu Bakr al-Baghdadi e Abu Ibrahim al-Hashimi al-Qurayshi. A causa della situazione di minaccia presentata, l’Ufficio per la protezione della Costituzione ha immediatamente adottato adeguate misure di sensibilizzazione e protezione oltre ad intense azioni investigative per scongiurare il pericolo. Quanto accaduto a Vienna non è che l’ennesimo segnale del tentativo di riorganizzarsi dello Stato islamico nel Vecchio Continente dove le operazioni antiterrorismo continuano a sventare attentanti come accaduto nelle scorse settimane a Parigi e a Barcellona dove gli estremisti islamici hanno da sempre nel mirino il Tempio Espiatorio della Sacra Famiglia meglio nota come Sagrada Familia.

Ma l’operazione più importante contro il jihadismo l’hanno messa a segno le autorità italiane lo scorso 14 giugno grazie all’antiterrorismo della Polizia di Stato, coordinata dalla procura di Genova, la Direzione distrettuale antimafia e antiterrorismo che hanno arrestato 14 cittadini pakistani tutti inseriti nel circuito relazionale diretto di Hassan Zaher Mahmood, il 27enne pakistano che il 25 settembre 2020, a Parigi, ha compiuto un attacco armato di una mannaia nei pressi della ex sede della rivista satirica Charlie Hebdo (due feriti gravi). Per tutti i fermati l’accusa è di associazione con finalità di terrorismo internazionale. In particolare, è emerso che il leader della cellula aveva ottenuto lo status di rifugiato in Italia nel 2015. L’indagine ha dimostrato «l’esistenza e l’operatività, in diverse province italiane e in alcuni Paesi europei, di una cellula terroristica riconducibile ad un più ampio gruppo di giovani pakistani, autonominatosi Gruppo Gabar».

Le intercettazioni hanno svelato che il gruppo voleva colpire in Italia e in Francia dove Nadeem Raan, uno dei pakistani fondamentalisti arrestati dalla Digos di Genova era stato detenuto. Ma persino dal carcere francese fomentava i suoi complici ed in particolare il capo della cellula italiana Yaseen Tahir. Ma come è possibile che lo facesse dal carcere? Come visto in molte altre occasioni in Francia l’uomo seppur detenuto in un carcere aveva a sua disposizione uno smartphone con cui attivava pure delle videochiamate con i suoi complici. Noto come Peer (il maestro) Nadeem Raan diceva a Yaseen Tahir: «A breve uscirò, vedrai cosa facciamo là fuori». Per fortuna nostra gli italiani lo hanno fermato prima.

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