Il no all’aborto mostra la debolezza del sistema giudiziario Usa

La Corte Suprema degli Stati Uniti d’America ha abolito l’aborto negli USA.

Non è proprio così ma con questa decisione storica, anzi, epocale, ci siamo quasi.

Il sistema giuridico, dall’altra parte dell’oceano, è diverso dal nostro e più complesso sia da spiegare che da comprendere: in sostanza la Corte ha annullato una sentenza del 1973 (Roe v. Wade) che garantiva il diritto all’interruzione di gravidanza su base federale.

Da subito, in sostanza, i singoli Stati saranno liberi di applicare le proprie leggi in materia, senza più vincoli.

E non è difficile pensare che, soprattutto negli Stati del sud, più conservatori, vi sarà una corsa a legiferare in termini estremamente restrittivi, così come avvenuto in Missouri dove il governatore ‘trumpiano’ si è precipitato a firmare la legge che vieta l’interruzione di gravidanza ‘salvo in casi eccezionali’.

Non stupisce il rigurgito reazionario dei giudici della Corte Suprema che sono di nomina politica e, in maggioranza, erano stati designati dall’ex Presidente Donald Trump il quale, infatti, esulta come a un touchdown decisivo all’ultimo minuto del Superbowl (per restare nella retorica a stelle e strisce).

Sull’altro fronte, quello democratico, Barack Obama esprime la tragicità della pronuncia affermando che sono state “attaccate le libertà fondamentali di milioni di americani” e la di lui notissima consorte, Michelle, parla addirittura di decisione ‘orribile’.

Quello dell’aborto è un tema di coscienza dove non si può stare nel mezzo, come non si può essere incinta ‘appena appena’: o sei a favore o contro.

Punto, tertium non datur.

O riconosci la sacralità della vita del feto fin dalla sua gestazione o affermi il primato dell’adulto e del suo libero arbitrio.

Questo non è e non può essere, quindi, un articolo per perorare l’una o l’altra posizione, ciascuna delle quali porta argomenti efficaci quanto divisivi.

E’ una riflessione generale sulla fragilità democratica di un sistema giuridico che, pur appartenendo alla più grande e potente, ricca e militarmente dominante nazione al mondo, affida a un manipolo di giudici (nove quelli della Corte Suprema), che rispondono alla politica, il potere di definire le libertà dei propri cittadini e, in ultima istanza, i diritti costituzionali.

Solo l’altro ieri la Suprema Corte ne ha combinata ‘un’altra’: sempre con lo stesso score (sei voti a favore e tre contrari), ha bocciato le restrizioni al porto di armi a New York: il Secondo Emendamento, hanno statuito, si applica anche fuori dalla propria abitazione.

Con questa decisione la Corte consacra, di fatto, il diritto di girare armati, ovunque, con buona pace delle tremende stragi di bambini avvenute nelle scuole americane e del numero – da terzo mondo – dei ‘morti ammazzati’ da arma da fuoco.

In pochi giorni il Presidente democratico Biden, che ovviamente si era schierato contro le armi e per il diritto all’interruzione volontaria di gravidanza, sta vedendo franare sotto i piedi i principi cui si ispirava.

E’ paradossale come decenni di diritti possano essere decisi non già dal Congresso e dai politici eletti, ma da pochi giudici orientati politicamente senza alcuna possibilità di un controllo, senza un meccanismo di contro-poteri.

In Italia saremmo anche più sgangherati, poveri, militarmente innocui, ma abbiamo un sistema che, a confronto, pare il grande Real contro la Solbiatese (con tutto il rispetto per la piccola compagine che milita nelle serie minori).

Le leggi costituzionali, da noi, sono modificabili solo attraverso procedure ‘rafforzate’ con maggioranze parlamentari implementate e, sopra ogni cosa, c’è comunque il controllo del Capo dello Stato e della Corte Costituzionale, un organo preposto ad hoc.

Quanto accaduto a Washington, dunque, sarebbe pura fantascienza.

Vien quasi da gonfiare il petto e desumere che soldi e potere economico-militare non garantiscano, alla fine, di poter vivere in un Paese all’avanguardia.

Gli USA insegnano, purtroppo o per fortuna.

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