E se i fondi europei vanno a fondo?

Le risorse del Piano nazionale di ripresa e resilienza sono legate a una tempistica inflessibile. Pena la perdita di tranche dei 191,5 miliardi di euro che l’Unione deve riconoscere all’Italia. E, crisi di governo a parte, già si accumulano gravi ritardi.


Ecco, ci mancava soltanto la crisi di governo più pazza del mondo. Perché la caduta di Mario Draghi, adesso, proietta gravi rischi sui 191,5 miliardi di euro che un anno fa Bruxelles s’è impegnata a versare all’Italia per fare fronte alla crisi innescata dal Covid. Insomma, ora anche i fondi europei potrebbero andare a fondo. È vero: le risorse europee non sono regalate. Solo un terzo della cifra, 64,5 miliardi, è a fondo perduto, mentre gli altri due terzi, 127 miliardi, ci vengono dati in prestito.
Ma quelle immense disponibilità, oggi, sono diventate fondamentali. Perché, nel disastro economico globale, sono l’unica robusta leva finanziaria che possa far ripartire il Paese. Per questo, la sola idea che possa arrestarsi il flusso di risorse in arrivo da Bruxelles dovrebbe terrorizzare anche il più irresponsabile dei politici.
Del resto, da quando nel febbraio 2021 Draghi era salito a Palazzo Chigi, il grosso dell’impegno del suo governo era stato dedicato alla messa a punto e al rispetto degli impegni del cosiddetto Piano nazionale di ripresa e resilienza, l’ormai mitologico Pnrr, che stabilisce come dovranno essere spesi i miliardi europei e contiene la serrata scansione temporale degli impegni concordata con la Commissione guidata da Ursula von der Leyen.
Eppure c’è un tema che buona parte della politica italiana pare ignorare. E cioè che l’Unione ha subordinato l’intero Recovery Plan, con i suoi 724 miliardi destinati ai 27 Stati membri, a un minuzioso sistema di controlli delle misure approvate a livello nazionale, in base a uno sfibrante «cronoprogramma». Giorno dopo giorno, i funzionari dell’Unione si confrontano con i governi destinatari dei fondi, per monitorare l’avanzamento dei piani e per verificare il rispetto di obiettivi e scadenze. Ogni sei mesi, poi, la Commissione decide se gli Stati abbiano rispettato tutti gli impegni e le scadenze previste nel semestre precedente.

A quel punto, ma solo se ogni cosa è in regola, Bruxelles eroga la porzione di risorse concordata. Se invece individua mancanze o irregolarità, può sospendere il finanziamento, ma anche bloccarlo per sempre. Questo meccanismo, inflessibile, andrà avanti fino alla fine del 2026.
Il problema italiano è che già prima dell’11 luglio, quando è scoppiata la crisi di governo, la grande corsa del Pnrr era in affanno. L’Italia, del resto, ha concordato con l’Europa un totale monstre di 226 obiettivi, suddivisi tra 62 grandi riforme e 164 investimenti. Nel capitolo delle riforme, le principali riguardano la giustizia civile e penale – con la regia del ministro Cartabia – l’amministrazione pubblica, il fisco, un nuovo Codice degli appalti, nuove norme sulla concorrenza e in campo ambientale, il contrasto della corruzione…
Alcune di queste riforme sono state faticosamente varate dall’esecutivo Draghi, quasi sempre sotto forma di decreti legislativi per accelerarne l’iter (è stato così, per esempio, con la controversa riforma della giustizia), però mancano ancora tutti i decreti attuativi. Mentre riforme altrettanto difficili e complesse, come quella del fisco e della concorrenza, dovrebbero essere approvate prima dello stop estivo, e invece sono ancora in Parlamento. Sono in ritardo anche i progetti dei 164 investimenti, che vanno dall’ammodernamento tecnologico degli ospedali alle infrastrutture digitali, dall’aumento della capacità dei trasporti pubblici, soprattutto ferroviari, alla bonifica di siti industriali inquinati, fino la creazione di grandi eventi per sostenere il turismo.
Eppure, all’inizio, tutto pareva filare liscio. Dopo un prefinanziamento da 24,9 miliardi incassato nell’agosto 2021, lo scorso 30 aprile il governo Draghi aveva rispettato alla perfezione il cronoprogramma ottenendo una prima tranche da 21 miliardi. Il 29 giugno, poi, con un giorno d’anticipo, il ministro dell’Economia Daniele Franco ha presentato a Bruxelles la richiesta di una seconda tranche da 21 miliardi, indicando «l’avvenuto completamento di altre 38 scadenze concordate con l’Europa» nel primo semestre dell’anno. Ora quel documento è al vaglio delle istituzioni Ue e, se tutto andrà bene, Roma andrà all’incasso.

Già prima della crisi di Draghi, però, perfino il «governo dei competenti» era andato in affanno. In maggio, ben prima che scoppiasse la crisi innescata dai grillini, il presidente del Consiglio s’era lasciato sfuggire che «il completamento di tutti gli adempimenti sta richiedendo uno sforzo fuori dal comune». Oggi Openpolis, un centro studi neutrale, rileva che in realtà non tutte e 38 le scadenze del primo semestre 2022 sarebbero state rispettate: «In base al nostro monitoraggio» scrive l’osservatorio «risultano ancora 5 interventi da conseguire». Se questo è vero, indipendentemente dalle ultime gravi fibrillazioni politiche, rischiamo la sospensione della seconda tranche.
Al di là del destino dei 21 miliardi collegati alla più recente quota di Pnrr, resta il fatto che rispettare il cronoprogramma concordato con l’Europa non è affatto banale. Entro il 2022 dovremo rispettare 55 obiettivi del Pnrr, da cui dipendono 19 miliardi. E la caduta del governo Draghi rischia di creare problemi insormontabili al Pnrr, potenzialmente trasformarlo nella classica «missione impossibile». Il 16 luglio, cinque giorni dopo l’apertura della crisi, lo aveva denunciato anche Angelo Panebianco sul Corriere della Sera: «Tra le più gravi ricadute interne della crisi», aveva scritto il politologo, «c’è il destino – già compromesso? speriamo di no – dei fondi del Pnrr, occasione irripetibile per rilanciare lo sviluppo del Paese».
Ai crescenti problemi politici, peraltro, si sommano difficoltà di altro genere. Basta pensare che il 34-37 per cento dei fondi Ue, equivalenti a 65-70 miliardi, è affidato agli enti locali. Tradizionalmente, però, Regioni e Comuni sono lenti nel presentare i progetti che attingono ai fondi Ue, spesso non riescono nemmeno a spendere quanto ottenuto.
Così l’economista Tito Boeri ora si chiede «se il nostro Paese abbia le capacità di progettare in pochi mesi e di spendere in pochi anni risorse così ingenti, soprattutto a livello locale dove si concentra gran parte dell’azione».
Sul Pnrr grava infine un altro rischio, sempre più grave via via che il tempo passa: gli agguati della giustizia amministrativa. Due settimane fa il Tar della Puglia ha sospeso la costruzione del nuovo nodo ferroviario a Sud di Bari, il cui costo per oltre metà – 204 milioni di euro su 391 – verrebbe finanziato dai fondi Ue. A bloccarlo è bastato il ricorso di un’organizzazione ambientalista. La causa, che ora passa davanti al Consiglio di Stato, provocherà inevitabili ritardi e aumenti dei costi incompatibili con quanto previsto dal Pnrr. La decisione del Tar pugliese crea insomma un precedente grave, che potrebbe replicarsi su decine di altre opere. Per questo il 9 luglio, due giorni prima della crisi, il governo Draghi aveva deciso per decreto l’accelerazione dei giudizi amministrativi che coinvolgono opere finanziate dall’Europa.
Ma era la classica toppa applicata sullo strappo. Ora è l’intero quadro politico a essersi sfilacciato.

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