Biden come Obama. La politica estera dei democratici è un flop

Ci risiamo. Come Mosca, anche Pechino lancia la sua «operazione militare speciale» nelle acque prospicienti l’isola di Taiwan. I missili cinesi sono una risposta obbligata agli Usa e il segno della loro grande irritazione per la visita di Stato compiuta dalla terza carica dello Stato Nancy Pelosi nell’«altra Cina», appunto Taiwan.

Xi Jinping non ama essere messo all’angolo, per di più nel momento cruciale del rinnovo della sua leadership e oltretutto per mano della coriacea leader dei democratici, con cui Pechino ha non pochi precedenti. A meno di perdere la faccia di fronte al consesso internazionale – che intende capire se le pretese di Pechino sull’isola ribelle siano reali o solo retorica imperialista – il segretario-presidente cinese ha dovuto rispondere. E adesso si trova su un piano inclinato che potrebbe trascinare Pechino in una guerra che non desidera.

Anche perché il XX Congresso del Partito Comunista Cinese è alle porte – si terrà nell’autunno di quest’anno – e Xi ha ottenuto per tempo un emendamento costituzionale alla regola imposta da Deng Xiaoping nel 1982 dei due mandati; mossa per la quale è stato molto criticato in patria. È evidente che Xi cerca la rielezione, ma non intende offrire ai suoi avversari armi per detronizzarlo.

Intanto, la «capitale» Taipei – che né gli Usa, né l’Onu o altri riconoscono come Stato indipendente – è andata in estasi per la visita di Nancy Pelosi, speaker della Camera e vero volto dei democratici: cartelloni elettronici di benvenuto con emoji del cuore hanno illuminato il grattacielo Taipei 101 e Pelosi è stata anche insignita dell’Ordine delle Nubi Propizie con il Gran Cordone Speciale. Un gesto solenne e significativo, che sottolinea quanto stretto sia il legame di Taiwan con gli Usa.

Anche se il presidente Biden tentenna temendo un’escalation nella regione, la narrativa pubblica della sua amministrazione è chiara. La speaker stessa ha spiegato il senso della missione: «Sono nostri partner. Xi Jinping invece è sempre più aggressivo, e sta preparando l’unificazione. Non cederemo mai alle minacce dei dittatori». Punto e a capo. Insomma, l’isola è un’oasi di democrazia nell’Asia sempre più rosso cinese (verrebbe da dire comunista, se ciò non suonasse un po’ bizzarro), e pertanto va tutelata a ogni costo.

Vale la pena sottolineare che Nancy Pelosi è la seconda in linea di successione per la presidenza dopo la vicepresidente Kamala Harris, ed è il politico statunitense più anziano a essersi recato a Taipei dai tempi del suo predecessore, Newt Gingrich, nel lontano 1997. Schietta e combattiva, l’abbiamo osservata duellare a lungo con Donald Trump, ma pochi conoscono i suoi precedenti contro la Cina. Uno di questi risale agli inizi degli anni Novanta, quando rese omaggio alle vittime di piazza Tienanmen, recandosi personalmente a Pechino nel 1991, due anni dopo le proteste civili represse nel sangue dal governo cinese, e sventolando uno striscione in onore dei manifestanti deceduti in faccia ai comunisti.

Ancora nel 2002 Pelosi pretese di incontrare l’allora vicepresidente cinese Hu Jintao, con l’obiettivo di metterlo in difficoltà e inchiodarlo alle responsabilità del gigante asiatico nei confronti dei diritti umani: gli porse quattro lettere in cui si esprimeva preoccupazione per la detenzione e l’incarcerazione di attivisti in Cina e Tibet, chiedendone il rilascio. Hu ovviamente rifiutò di accettarle, in evidente imbarazzo.

Ma, tanto per comprendere meglio la sua pervicacia, la speaker sette anni dopo tornò a Pechino e consegnò a mano un’altra lettera a Hu Jintao (nel frattempo divenuto segretario e presidente), chiedendo ancora il rilascio di prigionieri politici, tra cui il dissidente Liu Xiaobo, Premio Nobel per la Pace nel 2010. Quest’ultimo non riuscì mai a ottenere la libertà né poté ritirare il premio in Norvegia. È morto di cancro nel 2017, mentre era ancora sotto la custodia cinese, con grave biasimo della comunità internazionale.

Perciò, Pechino non ha mai nascosto il suo disprezzo e fastidio per la Pelosi, definita non a caso una figura «ricolma di bugie e disinformazione». Soprattutto, però, il partito comunista teme le conseguenze della politica estera dei democratici alla guida della Casa Bianca. Che si sostanzia in un concetto sin troppo chiaro: rinnovare la leadership americana. Il che significa, tra le altre cose, non piegarsi ai diktat russi e men che meno a quelli del vero competitor, la Cina di Xi Jinping.

Alla fine degli anni Novanta fu il Segretario di Stato democratico Madeleine Albright a definire il perimetro di azione degli Stati Uniti, in qualità di «nazione indispensabile» all’ordine mondiale. Una linea peraltro già espressa dal presidente Bill Clinton nel 1996, e ribadita ancora da Al Gore durante la campagna elettorale del 2000 quando, nel corso di un dibattito televisivo con George Bush jr, Gore sostenne apertamente che i valori degli Stati Uniti dovevano costituire un «modello» per il resto del mondo.

Oggi il concetto dei dem non è cambiato. Per capirlo, basta leggere il recente programma del partito dell’Asinello: «La più grande potenza del mondo merita di avere il miglior corpo diplomatico del mondo. […] I democratici rimetteranno la diplomazia nelle mani di professionisti e si assicureranno che siano meglio preparati a far avanzare gli interessi americani sulle questioni centrali del nostro tempo».

Dietro queste parole, si cela la vera dottrina estera espressa dal gruppo dirigente che opera alle spalle di Joe Biden: il futuro dell’America è nel rapporto tra democrazie e regimi autoritari, una competizione dove Washington deve a ogni costo prevalere.

Una linea rossa ben più marcata di quella che fu maldestramente abbozzata da Barack Obama, incapace di esprimere una politica di potenza Usa antagonista all’espansionismo cinese, e accompagnata da una narrativa secondo cui l’esistenza stessa di regimi non democratici rischia di indebolire o addirittura compromettere lo stato di diritto americano e di contagiare le libertà conquistate in secoli di democrazia.

A partire dall’arrivo di Donald Trump – ecco il punto dei dem – gli Stati Uniti sono regrediti e non appaiono più immuni a tali tendenze; anzi, subiscono il fascino dell’autoritarismo (vedi l’assalto a Capitol Hill). La società americana corre insomma il rischio di scivolare a sua volta verso uno Stato autoritario, anticamera della dittatura. E questo i democratici non lo possono permettere. È dunque in chiave anzitutto interna, e in un’ottica conservativa del «primato democratico» che gli Usa detengono, che la Pelosi e i dem ragionano e operano. In ossequio a questo principio, è consentito persino combattere una guerra.

Ecco il significato ultimo della provocazione della Pelosi, e il senso della linea della fermezza in Ucraina. Non siamo più ai tempi di Kissinger che blandiva la Cina dandole agio a promuovere quella politica economica che abbiamo imparato a chiamare globalizzazione, e che prese corpo negli anni seguenti allo storico incontro Nixon-Mao del 1972 in chiave di contenimento anti-sovietico.

L’accordo repubblicano al tramontare della guerra del Vietnam, secondo la rilettura odierna dei democratici, somiglia quasi a una resa. Anche perché, tirando le somme, la politica della «mano tesa» americana ha condotto Pechino verso un benessere economico diffuso per le classi medie dell’ex impero celeste, che resta il tassello più importante del consenso universale di Xi Jinping.

Al tempo, Nixon promise che Washington avrebbe abbandonato la «teoria delle due Cine», riconoscendo l’indivisibilità della Cina e impegnandosi a ritirare tutte le forze militari di stanza sull’isola di Taiwan. In cambio, Pechino sostanzialmente accettava la supremazia statunitense nel Pacifico.

Tutto questo non poteva durare, secondo i democratici. E in effetti non è più così. Anzi, sarebbe stato proprio quell’accordo a insidiare la leadership americana nel mondo. E difatti oggi siamo al vertice della tensione nei rapporti sino-americani. Anche perché il fine ultimo degli Usa è scongiurare il «grande sorpasso» della Cina sull’America. Un fatto che, se inverato, segnerebbe il definitivo declino di quest’ultima, che non potrebbe più fregiarsi del titolo di «più grande potenza del mondo».

E quale miglior sistema per evitarlo, se non sbandierare il vessillo della democrazia di fronte agli occhi del miliardo e quattrocento milioni di cinesi? Al contagio autoritario, insomma, bisogna rispondere con un contagio democratico, ribaltando la prospettiva. Nel caso in cui questa dottrina avesse successo – e Taiwan è il vero banco di prova per i dem – ciò significherebbe l’implosione del regime comunista e la nascita di tante piccole Cine, indipendenti e frammentate, sul modello del post Unione Sovietica. Un fatto che ha relegato la Russia al rango di potenza minore, archiviando il pericolo del contagio comunista e ponendo la corona d’alloro sul capo del presidente degli Stati Uniti d’America per i decenni a seguire. In una parola, è l’antica politica del divide et impera. Un’arte raffinata che può passare per la diplomazia come per le armi. E che in ogni caso resta l’orizzonte politico di sempre degli Stati Uniti, di cui il partito democratico si sente portabandiera come e più dei repubblicani, in virtù di una presunta superiorità morale.

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