Afghanistan, è caccia alla talpa che ha informato gli Usa su Al Zawahiri

L’uccisione del leader di al-Qaeda Ayman al-Zawahiri avvenuta a Kabul (Afghanistan) lo scorso 31 luglio sta provocando una profonda frattura all’interno del regime talebano e sta mettendo anche a dura prova i rapporti tra gli ex studenti coranici e la rete Haqqani con la quale, tra molti scontri, i Talebani condividono il governo dell’Afghanistan. In queste ore è in corso la caccia per scoprire chi ha informato nel maggio scorso gli Usa della presenza del leader di al-Qaeda. Poche persone anche tra i Talebani e la rete Haqqani erano a conoscenza del luogo dove è stato ucciso ma la taglia da 25 milioni di dollari potrebbe aver convinto qualcuno a parlare con la Cia. É vero che sono passati pochi giorni da quando due missili Agm-114 R9X, meglio conosciuto come Hellfire, lanciati da un drone della Cia hanno incenerito il leader di al-Qaeda che si era affacciato da qualche minuto al balcone dell’appartamento dove viveva e quindi prematuro avere certezze su quanto accaduto, tuttavia, ci sono pochi dubbi che la morte di al-Zawahiri sia da attribuire solo ed esclusivamente all’ottimo lavoro svolto dalla Cia.

Il ruolo di Sirajuddin Haqqani

Premesso che l’intera verità potrebbe non emergere mai, sappiamo alcune cose; l’appartamento nel quale viveva Ayman al-Zawahiri con la sua famiglia, è di proprietà dell’attuale ministro degli Interni Sirajuddin Haqqani, terrorista e narcotrafficante globale, leader della rete Haqqani (terroristi e trafficanti di droga), sul quale l’Fbi ha messo una taglia da 10 milioni di dollari, così come sappiamo che l’attacco con il drone/i era stato pianificato da tempo. Inoltre è certo che la zona dove viveva il leader di al-Qaeda è un’area fortemente sorvegliata dai Talebani visto che ci vivono i più importanti membri del regime di Kabul. A proposito di Sirajuddin Haqqani: non è un segreto per nessuno che non ha mai obbedito al Consiglio dei Talebani di Quetta ( Pakistan), poiché si considera il conquistatore e il padrone di Kabul, così come si sapeva che lui non avrebbe mai sottoscritto nel febbraio 2020 l’accordo di pace firmato a Doha (Qatar) tra l’emirato islamico dell’Afghanistan (i Talebani) e gli Stati Uniti che di fatto ha aperto la strada al ritiro delle truppe statunitensi dall’Afghanistan dopo 20 anni. E perché? I Talebani si sono impegnati «a non consentire a nessuno dei suoi membri, altri individui o gruppi, inclusa al-Qaeda, di usare il suolo dell’Afghanistan per minacciare la sicurezza degli Stati Uniti e dei suoi alleati», che sono tutti concetti che per Sirajuddin Haqqani erano e sono inaccettabili. Questa instabilità all’interno dei Talebani è emersa fin da quando l’ultimo aereo statunitense ha lasciato il Paese nell’agosto 2021 con le varie fazioni che hanno subito iniziato a lottare per il primato nella nuova amministrazione. Si pensa che la nomina di Haqqani a ministro degli Interni sia stata un compiacimento per la sua fazione, ma questo non ha certo allentato le tensioni.

Un anno di fallimenti

Ma l’accordo di Doha lo volevano tutti a parte gli Haqqani; gli Stati Uniti che volevano lasciare a tutti i costi l’Afghanistan e speravano di utilizzare i Talebani per contrastare la crescente minaccia dell’ISIS-K nella regione, i Talebani alla disperata ricerca di denaro contante e, una volta al potere, di riconoscimento internazionale. In questo anno al potere i Talebani si sono scontrati con la dura realtà che comporta governare un Paese come quello afghano; innanzitutto mancano totalmente le competenze all’interno del governo e nessuno sa come far girare la macchina amministrativa, il Paese è stato subito isolato a livello internazionale anche a causa dell’oppressione sulle donne, le Ong che hanno aiutato la popolazione per decenni sono fuggite, senza contare che le casse dello Stato sono totalmente vuote. E i cinesi e i russi che avevano inizialmente aperto a degli aiuti economici? Se la sono filata immediatamente vista la totale inaffidabilità delle bande che compongono il regime tutte impegnate fin da subito a rubare tutto il possibile.

Un anno di fallimenti e la trappola americana

I Talebani hanno anche fallito in quello che è stato il loro cavallo di battaglia ovvero la sicurezza; l’ISIS-K infatti colpisce ogni giorno in tutte le 34 province afghane, uccide i leader Talebani anche nelle loro case e persino le bande di predoni hanno ricominciato a operare ovunque senza contare che la criminalità comune è aumentata ovunque. Tutti questi fallimenti hanno spinto il governo di Kabul a chiedere agli Stati Uniti di sbloccare i 9 miliardi di dollari congelati nella banche americane e inglesi. Washington non aspettava altro ed è qui che si è giocata la partita su Ayman al-Zawahiri che gli USA hanno chiesto in cambio dello sblocco di circa 3.5 miliardi di dollari da destinare alla popolazione afghana. Dare per avere, come in tutte le trattative. In tal senso non è un mistero che il presidente degli Stati Uniti abbia ordinato qualche settimana fa di mettere da parte questa cifra depositata alla Federal Reserve Bank di New York «a beneficio del popolo afghano». Poi però qualcosa si è rotto nelle trattative condotte segretamente tra Doha (anche stavolta) e Washington perché all’interno della galassia talebana (sopratutto dai più anziani) la consegna del leader di al-Qaeda era ritenuta come inaccettabile; poi ci sono stati scontri tra fazioni talebane e della rete Haqqani accusata di ospitare Ayman al-Zawahiri nel centro di Kabul, un fatto che non era noto a tutti. Ma dopo una serie di incontri nel luglio scorso definiti «deludenti» gli Usa avrebbero capito che a Kabul nessuno gli avrebbe mai consegnato il leader di al-Qaeda e a quel temendo che il loro target venisse spostato, hanno accelerato l’operazione contro al-Zawahiri che non usciva mai per le strade della capitale. Secondo un alto funzionario del Pentagono: «Alti esponenti dei Talebani e della rete Haqqani erano a conoscenza della presenza di al-Zawahiri nell’area e hanno persino preso provvedimenti per nascondere la sua presenza dopo l’attacco dei droni una chiara violazione dell’accordo di Doha limitando l’accesso al rifugio e ricollocando rapidamente i membri della sua famiglia, compresi sua figlia e i suoi figli, che non sono stati intenzionalmente presi di mira durante l’attacco e sono rimasti illesi». In realtà oltre ad Ayman al-Zawahiri nell’attacco, sarebbero morti anche un figlio e il genero di Sirajuddin Haqqani.

Parla l’ex negoziatore Zalmay Khalilzad

L’ex massimo negoziatore statunitense per i colloqui Usa-Talebani, Zalmay Khalilzad, ha parlato per la prima volta alla National Public Radio (NPR) degli Stati Uniti affermando che «altri elementi dei Talebani potrebbero aver aiutato gli Stati Uniti a eliminare il nemico più ricercato da Washington nel cuore della capitale afgana: forse c’è stato un disaccordo o addirittura rabbia, e che alcuni elementi stavano violando l’accordo che era stato negoziato tra Stati Uniti e Talebani, e che questa azione degli Haqqani avrebbe messo a tacere, guadagni che sono stati ottenuti. Le lezioni che avevano appreso sostenendo al-Qaeda l’ultima volta sono costate loro molto», ha affermato l’ambasciatore Khalilzad.

E se fossero stati i servizi segreti pakistani?

L’ipotesi non è certo campata in aria come ci conferma Michele Groppi, Lecturer in Defence Studies al King’s College London e Presidente di ITSS Verona: «Tradizionalmente, i membri dell’Inter-Services Intelligence (Isi) pachistano hanno avuto legami abbastanza forti con i Talebani afghani. Secondo quanto riferito, queste connessioni sono ancora solide, in particolare con la rete Haqqani. Personalmente ho parlato degli ufficiali afgani che hanno affermato che l’intelligence pakistana sarebbe stata sottoposta a forti pressioni politiche per collaborare con gli Stati Uniti. L’ufficiale dell’intelligence mi ha detto che non solo Islamabad ha concesso a Washington il permesso di utilizzare il suo spazio aereo per effettuare l’attacco, ma che membri dell’Isi potrebbero aver rivelato e/o confermato la posizione di al-Zawahiri per evitare il collasso economico in alcune aree».

Il futuro al-Qaeda e il destino dell’Afghanistan

Mentre si attende il comunicato del comando centrale di al-Qaeda che annuncia la morte di Ayman, al-Zawahiri c’è attesa su chi sarà il nuovo leader dell’organizzazione terroristica. In tal senso il prescelto potrebbe essere (il condizionale è d’obbligo) l’egiziano Mohammed Salah al-Din Zaidan, classe 1960, ex colonnello dell’esercito delle forze speciali, meglio conosciuto come Saif al-Adel sul quale l’Fbi ha messo una taglia da 10 milioni di dollari. Altro possibile candidato è Abd al-Rahman al-Maghrebi, genero di al-Zawahiri, cittadino marocchino che ha studiato programmazione software in Germania prima di recarsi in Afghanistan da dove gestisce Al Sahab, la principale ala mediatica di al-Qaeda e per questo sulla sua testa c’è una taglia da 7 milioni di dollari. Presto (forse) sapremo chi sarà il nuovo sceicco del terrore con il quale dovremo fare i conti.

Che accadrà all’Afghanistan? Secondo Michele Groppi: «Per quanto riguarda l’Afghanistan, la morte di al-Zawahiri potrebbe avere terribili implicazioni. Le accuse di cooperazione con gli americani influenzeranno la già divisa leadership talebana, il che potrebbe portare ad aspri combattimenti intestina al suo interno. E la presenza di un terrorista di spicco come al-Zawahiri presumibilmente sotto la protezione di alti quadri talebani non aiuterà le relazioni Usa-Talebani. È una violazione diretta degli accordi di Doha. Qualsiasi spaccatura ai vertici dei talebani consentirebbe anche ad altri gruppi terroristici operanti in Afghanistan, come ISIS-K, di espandere la propria influenza e le proprie operazioni, con conseguenze terribili per gli afghani comuni».

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