L’economia cinese in crisi si prepara alla guerra

La Cina, nel secondo trimestre di quest’anno, è cresciuta di appena lo 0,4% rispetto all’anno precedente. «L’attuale operatività economica deve affrontare alcune contraddizioni e problemi importanti» ha dichiarato il Politburo di Pechino, mal celando insoddisfazione per il crollo verticale del suo prodotto interno lordo. «Dobbiamo mantenere il nostro focus strategico e fare le cose con fermezza».

L’obiettivo atteso del +5,5% per il 2022 era già il più basso da un quarto di secolo a questa parte secondo la pianificazione economica impostata dal gigante asiatico, che sognava per il prossimo biennio l’affermazione definitiva del piano Belt and Road Initiative, ossia agganciare un’ulteriore espansione dei mercati conquistando l’Europa per mezzo della «nuova Via della Seta».

L’attuale crisi con Taiwan non consentirà alla Cina neanche di avvicinarsi alla cifra del 4% (già rivista al ribasso) per il 2022, attestandosi invece a un deludente 3,3%, secondo le stime di Goldman Sachs. Ma l’economia cinese è davvero in crisi?

Di certo, tutti i segnali indicano che il Partito comunista si appresta ora a entrare nella cosiddetta «economia di guerra»; una strategia che, se da un lato mostra le preoccupazioni della contrazione della bilancia economica, dall’altro richiede di ripianificare l’organizzazione produttiva alla luce della forte sofferenza dell’economia globale.

Ecco perché oggi Pechino ha deciso di cambiare in corsa il proprio piano quinquennale 2021-2025. E intende farlo a partire dall’energia: punta infatti a sostituire l’economia lineare – con la realizzazione di prodotti monouso o che, dopo l’utilizzo, vengono eliminati – con un’economia circolare, massimizzando cioè l’uso delle risorse e del ciclo di vita dei prodotti, e contraddicendo la sua vocazione di «fabbrica del mondo».

Ma non solo. Un aspetto rilevante di ogni economia di guerra è l’organizzazione produttiva, che obbedisce a forme di pianificazione sia dei flussi di materie prime sia dei modelli prodotti, allontanando il modello del libero mercato per ingrandire a dismisura l’intervento dello Stato, solitamente in funzione bellica.

Ed ecco che Pechino, nonostante il rallentamento dell’economia globale, ha iniziato nuovamente a centralizzare gli ordini e ad accumulare scorte di beni e materiali indispensabili ai «tempi duri», Tra questi ha puntato su: rame (di cui già detiene il 93% delle scorte mondiali), alluminio, mais, frumento e carne. Gli economisti cinesi sono infatti convinti che presto le scorte di Europa (Russia compresa) e Usa si esauriranno, e che di conseguenza i Paesi dell’occidente torneranno a rivolgersi per l’approvvigionamento unicamente a Pechino, che di conseguenza potrà rivendere al doppio del prezzo. La teoria cinese è, infatti, che se Pechino dispone di una materia prima senza limiti diventandone monopolista, presto ne gioveranno le esportazioni; in caso contrario, potrà comunque sostenere tale sforzo grazie al suo enorme mercato interno e al degenerare delle condizioni dei mercati limitrofi (Russia in primis, perché colpita dalle sanzioni).

Nell’ultimo decennio, il mondo si era affidato alla Cina come risorsa per le catene di approvvigionamento globali, con Pechino che si era convinta di poter sostenere all’infinito questo trend. Ma – complice la pandemia – qualcosa si è rotto, il mercato si è contratto e il Pil nazionale cinese è precipitato. Anche in corrispondenza della guerra economica scatenatale contro dagli Stati Uniti, loro principale competitor: tutto questo, se ha provocato danni reciproci e svantaggi per tutti sia nelle aree commerciali che nei settori di investimento, ha costretto il resto del mondo a ridimensionare la domanda.

In ottica interna, la Cina in questi anni ha potuto godere di un grande piano di urbanizzazione nazionale, che ha portato in pochi decenni quasi mezzo miliardo di contadini a lavorare in fabbrica e nei servizi, sia pur con salari modesti e in assenza di uno stato sociale. In questo modo, ha potuto occupare una parte rilevante della propria manodopera nello sviluppo di nuove tecnologie (anche se importate dall’estero) e ha iniziato a costruite dal nulla intere città e infrastrutture per collegarle alle fabbriche.

Senza un modello assistenziale e assicurativo, il risparmio delle nuove classi operaie e borghesi è però finito per la parte maggiore negli immobili e nel capitale industriale, meno negli investimenti e nelle esportazioni, che sono diventati quasi la metà del Pil.

Il settore immobiliare cinese, in particolare, ha visto un’impennata nelle costruzioni, cui però non è corrisposto un ritorno: l’offerta di abitazioni si è infatti rivelata molto maggiore di quelle che sono state poi effettivamente domandate. Da qui la crisi del settore immobiliare, che ha portato al crollo del Pil e a un tasso di disoccupazione giovanile salito al 19,3% a giugno di quest’anno.

Da qui la certezza del Politburo che il settore immobiliare non sarà più un grande traino dell’economia nel prossimo quinquennio, perché ha ormai esaurito la propria spinta propulsiva; e lo stesso sembra avvenire ora per il settore delle infrastrutture, che condanna la grande crescita cinese a uno stop imprevisto. «Il passo in avanti della crescita si potrebbe avere solo con lo sviluppo del settore tecnologico, con la costruzione di uno stato sociale che spinga il livello dei consumi, e con le esportazioni» sottolinea l’economista Giorgio Arfaras. Ma per il momento, la ricetta adottata da Pechino sembra più modesta e realista, ispirata anzitutto ai venti di guerra nel Mar Cinese.

Tutto questo comporta come conseguenza un mondo che torna a farsi più «chiuso»: la nuova Via della Seta si è già molto ridimensionata; la Russia ha visto morire l’idea di creare uno spazio comune con l’Unione Europea; la cooperazione globale e la globalizzazione stessa sono defunte; Cina, Russia e India si rivolgono soprattutto a Est; lo stesso spazio virtuale si riduce; la guerra in Ucraina e il blocco a Taiwan ridisegnano le rotte commerciali; lo sviluppo tecnologico torna ad essere l’orizzonte cui ogni singolo Paese deve puntare per sopravvivere nella competizione.

Per capire meglio quest’ultimo punto, basta guardare al Chips and Science Act, un pacchetto da 280 miliardi di dollari appena varato da Washington, e grazie al quale l’America intende affrancarsi dalla dipendenza dei semiconduttori di Taiwan, che da soli valgono il 74% dell’intero mercato e che sono il volano per la produzione di prodotti tecnologici e digitalizzati.

Insomma, se questo non è esattamente un ritorno alla «autarchia» – cioè a una politica economica che, sfruttando le risorse proprie di uno Stato, tende a renderlo autosufficiente e quindi economicamente indipendente dai Paesi esteri – siamo comunque di fronte a un mondo che si fa più instabile, che alza muri politici e doganali, e che in definitiva è più pericoloso. Anche perché uno starnuto della Cina, specie in tempi di pandemie, può significare il raffreddore per il resto del mondo.

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