Raniolo: «L’astensionismo indica una rottura del patto tra cittadini e politica»

Alle domande di Panorama.it, Francesco Raniolo – tra l’altro docente di “Politica e comunicazione” nel Corso di laurea in Media e società digitale presso l’Università della Calabria- sostiene che «nell’era del digitale, dei partiti light, della protesta il senso e la portata del voto cambia radicalmente, ponendo una sfida inusitata per la qualità della democrazia rappresentativa».

Professore, si va al voto anticipato con l’incognita astensionismo.

«Potremmo esordire dicendo “cosa fatta capo ha”. Con Draghi cade il 64° governo della Repubblica italiana, contando dalla prima legislatura. Dal 1993, quando si entrò nella fase del collasso del quadro politico nazionale, è stato il quarto governo tecnico dopo Ciampi, Dini e Monti. Con una durata all’ingrosso simile ai primi due, poco più di un anno, più longevo il governo Monti. Ma è al processo che si è innescato con la sua caduta che dobbiamo guardare. Ora, i fenomeni sociali e politico-istituzionali possono essere analizzati a livelli distinti».

Scendiamo nei particolari!

«Occorre farlo. C’è il livello delle condizioni o cause antecedenti che per lo più combinate in qualche modo hanno prodotto certi fenomeni, quello delle occasioni che li hanno consentiti favorendo scelte degli attori in campo per lo più dotate di razionalità limitata e strategica, e, infine, c’è il livello delle conseguenze che producono spesso non intenzionali e in gran parte sganciate dalle cause a monte e dalle scelte. Tra i tre livelli si inseriscono, però, le narrazioni degli attori. La politica, in fondo, è anche lotta per le rappresentazioni strategiche di eventi e problemi. Questo schemino vale per la guerra in Ucraina e vale anche per la crisi del governo Draghi».

Venendo al dato dell’affluenza, le amministrative parziali dello scorso giugno hanno fatto registrare un dato anomalo nella storia repubblicana.

«In effetti, allora solo 40 elettori su cento si sono recati alle urne. Il dato è critico per la stessa qualità della democrazia, per la sostenibilità di una “democrazia senza demos”. In vista delle elezioni del 25 settembre la questione si fa ancora più rilevante, a guardare le dimensioni delle intenzioni di “non voto” e degli elettori incerti, stimati da alcuni sondaggi ben oltre il 40 %».

Ha delle spiegazioni in merito?

«Iniziamo con il dire che le intenzioni di voto a circa due mesi dalle elezioni non sono del tutto affidabili. La scelta di voto è un processo dinamico condizionato da fattori di sfondo, remoti (identità, conflitti sociali, tradizioni, correnti di opinione pubblica) e, sempre di più da fattori prossimi, contingenti (candidature, campagne elettorali, eventi specifici, orientamenti emotivi degli elettori). In secondo luogo, occorre guardare la specifica elezione, in questo caso politiche, i livelli di astensionismo presentano delle regolarità significative a seconda del tipo di tornata elettorale».

Facciamo un esempio!

«Se osserviamo quanto accade in Italia con uno sguardo lungo si può vedere che dal 1946 al 2018 si sono avute ben 19 elezioni, la media complessiva della affluenza alle urne è stata dell’87%. Facciamo di gran lunga meglio di molte democrazie dell’Europa occidentale, quali Regno Unito, Francia, Portogallo e Spagna, della stessa Germania e delle stabili democrazie del Nord Europa. Siamo superati solo da Belgio, Austria e Lussemburgo».

Tutto bene, sembrerebbe.

«In realtà il quadro cambia, ma non drammaticamente, se invece di ragionare per lunghi periodi si guarda a fasi o cicli politici del nostro paese più limitati e, soprattutto, se guardiamo agli anni più recenti. Nelle elezioni del 1994, quelle della destrutturazione del sistema partitico venuto fuori dal dopoguerra, la partecipazione alle urne era ancora pari all’86%. Fino ad allora c’era stata una erosione lenta, iniziata già alla fine degli anni ’70. È con le elezioni del ’94 che l’astensionismo fa dei balzi in avanti di circa tre punti ad elezione, si arriva così alle elezioni degli anni 2000, ben cinque, con una media della partecipazione elettorale del 78,7%».

Il punto di svolta è costituito dalle elezioni del 2013.

«Si è trattato della seconda destrutturazione del sistema partitico, quando l’affluenza si attesta al 75% e, quindi, con le elezioni del 2018, quando arriva, al livello minimo del 72,9%. Il trend, quindi, è chiaramente negativo e con crescente intensità negli ultimi anni elettorali. A dire il vero, c’è stata un’eccezione: nelle elezioni del 2006, quelle vinte da Prodi, la partecipazione per la prima volta dopo tanti anni aumentò di poco più di 2 punti percentuali rispetto al 2001, me ne avrebbe persi 3 nelle successive elezioni del 2008, quelle del ritorno di Berlusconi».

Come dire, il quadro è serio ma non ancora senza speranza.

«Tanto più se ritorniamo a guardare in prospettiva comparata. Lasciamo perdere l’Est Europa dove la partecipazione elettorale media dagli anni ’90 è poco più del 60%, con punte minime in Polonia (49,5%). Il quadro dell’Europa occidentale ci vede ancora “resistere”. Solo Belgio, Danimarca e Austria fanno meglio di noi nel periodo 1990-2022. Portogallo e Francia sono i due paesi fanalino di coda, con rispettivamente il 58,8 e il 60,9%, oltre alla Svizzera da sempre il paese con la più bassa affluenza alle urne».

Cosa rende il nostro Paese elettoralmente critico?

«Esattamente il combinato disposto tra astensionismo, comunque in crescita, volatilità degli elettori (cioè il fatto che hanno preferenze mobili che non si fissano), frammentazione del sistema partitico e polarizzazione intesa come la corsa dei partiti verso l’elettore estremo. Insomma, quello che mi pare renda l’astensionismo un fattore dirompente è il quadro d’insieme caratterizzato dallo svuotamento del centro partitico, per un verso, e dalla correlata crescita del “potenziale di protesta o di risentimento” dell’elettorato».

Inoltre, in Italia abbiamo registrato due impennate dell’astensionismo.

«Come dicevo, quelle del 1994-96 e del 2008-2013 delle quali si può dare una lettura “politica”: è la turbolenza del mercato elettorale, la mancata ristrutturazione del sistema partitico, una “maionese impazzita” (basti pensare ai partiti che si disfano e si fanno in Parlamento), la difficoltà di trasformare le sovra-promesse elettorali in risposte politiche. Anche perché nel frattempo i vincoli dell’azione di governo sono cresciuti».

Voi studiosi, alla fine, vi concentrate tutti sull’atto di votare…

«Ovviamente, le elezioni sono il cuore della democrazia, assieme ai diritti e al controllo-trasparenza del governo. Comunque, una rondine non fa primavera e le elezioni non sono una condizione sufficiente per parlare di democrazia, ma ne sono una condizione necessaria. Un tema di grande fortuna nella letteratura comparata è oggi quello degli “autoritarismi elettorali”. Comunque sia, il giorno delle elezioni, il cittadino è spinto a prendere due distinte decisioni: innanzitutto deve decidere se recarsi alle urne o meno, e, qualora opti per la prima soluzione, può scegliere quale tipo di preferenza esprimere. Due scelte oggi diventate critiche».

Intanto il 25 settembre si avvicina…

«In vista dell’inedito appuntamento, riprenderei, con una certa libertà interpretativa a partire dall’ordine di presentazione, quanto sostenuto negli anni ’90 da alcuni autorevoli studiosi americani che chiedendosi perché la gente non partecipa (Sidney Verba & co.) rispondevano: perché non vogliono, perché nessuno li coinvolge, perché non possono».

Sintesi anglosassone.

«Interrogarsi sulle ragioni degli elettori, significa in fondo guardare alla “domanda elettorale”, a come è cambiate nel corso del tempo facendosi più fluida, incerta, condizionale. Già nel corso degli anni ’70 e ’80 la partecipazione convenzionale (recarsi alle urne, iscriversi ad un partito o sindacato, assistere a comizi e manifestazioni, dare contributi economici per cause politiche) veniva sfidata per così dire a sinistra, dall’azione diretta e di protesta dei movimenti sociali, vecchi e nuovi, e a destra, dal riflusso di cittadini-consumatori la cui identità con Fromm si risolveva nell’io sono ciò che ho e ciò che consumo».

Lei ha una risposta più precisa?

«L’affermarsi della cosiddetta antipolitica ha alimentato quella che ho chiamato “una spirale del discredito” che ha investito la politica e i suoi principali oggetti: partiti, classe politica e Parlamento anzitutto. Si aggiunga che questa cultura dell’antipolitica è cresciuta a dismisura al verificarsi di alcuni eventi cruciali che hanno sconvolto le nostre società democratiche. Mi riferisco prima di tutto alla crisi economica del 2008, specie nell’Europa del Sud, che ha alimentato un potenziale di protesta e di risentimento che ha trascinato l’onda populista».

Intanto si moltiplicano in partiti di protesta…

«Nascono nella sinistra radicale, come tra l’estrema destra, ma anche tra i conservatori (come nel caso di La République En Marche!), molti dei quali avranno successi elettorali strepitosi e in diversi casi arriveranno al governo (Italia, Grecia, Francia e, poi, Polonia, Ungheria, Cechia, Bulgaria, Slovacchia)».

Anche nel mercato elettorale l’equilibro è fatto dall’incontro tra domanda degli elettori e offerta dei partiti.

«Qui troviamo il primo dato, il declino dei partiti di massa, con le loro identità collettive e relative “grandi narrazioni” a rinforzo. Le democrazie dell’immediato dopoguerra specie in Europa e dove erano profondamente divise, principalmente per ragioni ideologiche (Sartori parlava al riguardo di “pluralismo polarizzato” con riferimento anche all’Italia), favorivano la mobilitazione delle appartenenze. L’elettore con il voto testimoniava una fede piuttosto che esprimere una scelta di volta in volta. I grandi partiti, i “partiti chiesa” li chiamava il politologo Giorgio Galli, ancoravano l’elettore e in questo modo ne riducevano la volatilità e la fuoriuscita dal mercato».

Oggi il quadro è radicalmente mutato.

«Perché l’elettore “è mobile qual piuma al vento…”, è volatile più tra partiti e meno tra voto e non voto. Quando esce dal mercato fa più fatica a rientrare. I partiti per far fronte a tale fluidità ricorrono all’immagine di leader e candidati, a temi salienti o ad alta emotività (Europa, immigrati), alle campagne elettorali aggressive e invasive, giocare sull’emotività dell’elettorato (altro che opinione) per mobilitare preferenze. Fattori che possono servire a vincere un’elezione ma che non riescono a consolidare lealtà. Leader e partiti sono oggi tanto visibili quanto vulnerabili. Proprio l’Italia offre molteplici esempi di parabole plebiscitarie».

L’astensionismo in questo scenario competitivo muta anche il suo significato…

«Infatti, può diventare un alleato, se ad astenersi sono “gli altri” e se la previsione è fondata. C’è da dire che le liste bloccate non sono certo un incentivo al riguardo, né tanto meno la scelta per cooptazione dei candidati nei collegi uninominali (specie se sicuri). Già Maurice Duverger nei primi anni ’50 ricordava che la realtà dei partiti è fatta di nomine e cooptazione, più che di competizione e partecipazione. A proposito, che fino hanno fatto primarie, parlamentarie, gazebo, e via discorrendo?».

Rimane la terza sfumatura analizzata dai politologi statunitensi

«E siamo ai limiti di contesto che incontrano le cittadine e i cittadini nell’esercizio della sovranità politica. Anzitutto, sono limiti sociali, rimandano ai livelli di “sviluppo umano” dei contesti. Reddito, livelli di istruzione, aspettative e qualità della vita, differenze di genere e generazionali definiscono lo “status” dell’elettore. Se sono donna e/o giovane, vivo in un contesto urbano di disagio economico, non studio e non sono inserita in programmi di formazione professionale o avviata al lavoro è molto probabile che la perifericità sociale si trasformi in alienazione politica. Tanto più se il contesto nel quale vivo è refrattario anche di capitale sociale (associazioni, gruppi, reti sociali)».

Chiudiamo con i sondaggi.

«Sembrerebbe che il centro-destra sia nettamente in vantaggio, almeno al momento: le stime vanno dal 45 (Swg) al 49% (Tecnè-Dire). Non deve stupire se i leader di quell’area hanno colto al balzo l’assist del M5S. Tuttavia, la definizione della leadership così come delle candidature in uno scenario di riduzione delle poste in gioco (adesso i parlamentari sono complessivamente 600) può incidere sul quadro di partenza».

Intanto stanno cambiando le leadership in casa cdx e csx…

«Adesso è a trazione FdI. Lo stesso dicasi, a parti invertire, per il centro sinistra, che potrebbe giovarsi di una efficace lavoro di costruzione delle alleanze. Ma anche di un atteggiamento di rivalsa di un elettorato potenziale di sinistra che alla strategia del “tanto peggio tanto meglio” preferisca una mobilitazione reattiva tipo “patriottismo costituzionale” favorita dalla congiuntura».

Ovvero?

«Mi riferisco al fatto che le prossime elezioni sono quelle delle poli-crisi – economica (2008), pandemica (2020), invasione dell’Ucraina (2022) – del loro sovrapporsi e dei drammatici impatti interni e internazionali. Qui è in gioco il governo, le nostre possibilità di vita e le grandi visioni dell’ordine internazionale. Forse ciò potrebbe spingere gli elettori a far sentire la propria voce. In fondo, la democrazia si basa sulla premessa e promessa che il futuro possa essere deciso direttamente e liberamente da noi. Ma sarà effettivamente così?».

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Chi è Francesco Raniolo

Siciliano di Ragusa, classe 1965, allievo di Leonardo Morlino presso la Cesare Alfieri di Firenze, è ordinario di Scienza politica e Politica comparata nel Dipartimento di scienze politiche e sociali dell’Università della Calabria, di cui è stato anche direttore sino allo scorso anno. Vanta un’ampia competenza in materia di partiti politici e partecipazione politica che lo ha portato a sondare la lunga parabola della partitocrazia italiana. Già nel saggio dall’emblematico titolo “La partecipazione politica” (Il Mulino, 2007), Raniolo sosteneva il paradosso di democrazie che mentre si estendono di numero perdono di intensità rispetto all’attaccamento dei cittadini. Nei lavori più recenti poi (per es. “Disuguaglianza e Democrazia”, scritto con Leonardo Morlino per la Mondadori) il declino della partecipazione diventa, insieme al voto di protesta, un dato costante delle nostre democrazie, definite “polarizzate”.

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