I rinvii del lancio di Artemis non sono un fallimento

Prima un piccolo rinvio, poi un secondo, quindi la notizia che c’è qualcosa da rivedere nel sistema di propulsione del razzo SpaceX Sls della missione Artemis 1, notizia che ha trovato spazio su tutti i media proprio perché rappresenta l’inizio del ritorno dell’uomo sulla Luna. Poi, complice una diretta fatta sul web dalla Nasa e seguita quasi un milione di persone, la delusione per l’annullamento del lancio. Qui forse nasce l’equivoco. Non è vero che siccome sulla Luna siamo andati oltre mezzo secolo fa, oggi sia più facile, e neppure che si sia persa la cultura della costruzione dei razzi. Anzi, tuttavia quando si parla di missioni spaziali ci si illude che questi possano rappresentare ormai una routine. Errore fatto soprattutto dagli americani, quando dopo Apollo 11 e 12 smisero di mostrare interesse per i lanci, finché a riportare gli spettatori davanti alla televisione furono le disavventure delle navicelle “Odyssey” e “Aquarius” di Apollo 13. Ora lo Sls ha mostrato guai ai motori, che sono la versione rinnovata e modificata di quelli dello Space Shuttle. Questo non significa che siamo vecchi, ma che si è pensato di realizzare quelli nuovi sfruttando le esperienze positive delle oltre cento missioni delle navette. Esattamente come fecero alla Nasa per i programmi spaziali Gemini, Mercury e Apollo, che sfruttarono parte delle ben meno positive esperienze dei lanciatori Atlas e Redstone, nati per portare ordigni nucleari.

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Questo tipo di motori usa propellenti liquidi che vengono “sparati” nelle camere di combustione da turbopompe con pressioni elevatissime, dove una piccola perdita che metta a contatto il propellente con l’aria potrebbe causare un disastro. Il propellente utilizzato è la coppia formata da idrogeno ossigeno in forma liquida, e qui nascono i veri problemi, poiché i vecchi razzi non sono sufficienti per portare in orbita le nuove capsule, così lo Sls è un vettore molto più potente. Si tratta quindi di collaudare qualcosa che comunque è un prototipo in grado di portare il suo carico utile a oltre 12.500 km l’ora.

Ebbene, per mantenere allo stato liquido l’ossigeno e l’idrogeno bisogna tenerli a temperature di -183 e -253 gradi centigradi, fornendo continuamente energia elettrica al sistema di congelamento. Se poi è necessario svuotare i serbatoi per controllare un componente, si tratta di trasferire altrove quasi tre milioni di litri che si trovano dentro un oggetto alto oltre 110 metri. Al lancio, ipotizzando che fili tutto liscio, questi gas per arrivare nelle camere di combustione dovranno passare attraverso condutture e circuiti complessi, ed anche oltrepassare valvole che ne regolano il flusso. Il punto è che rispetto ai vecchi lanciatori lo Sls (e non soltanto) è molto efficiente, e ciò significa che è maggiore la sua capacità di trasportare carichi rispetto al peso totale, dettaglio che svela come tutte le componenti debbano essere più leggere di quelle realizzate in passato. Che quindi vanno collaudate e sperimentate seguendo un comandamento dell’industria aerospaziale: la sicurezza arriva dall’affidabilità, e questa dal tempo. Che ancora non c’è stato, considerando che ci si trova al primo lancio. In mezzo secolo i materiali usati per la costruzione si sono evoluti, ma quelli conosciuti in natura e le leghe speciali che possono reggere gli oltre 3.500 °C che si raggiungono nelle camere di combustione, senza fondere o dilatarsi troppo, non sono poi molti. È sufficiente che il combustibile si riscaldi di poche decine di gradi perché cominci a tornare gassoso causando un disastro. Tutto questo deve accadere per ognuno dei motori del razzo, che in questo caso sono quattro, e durante il primo tentativo di fine agosto, il numero “3” non risultava perfettamente raffreddato.

I dati della Nasa dicono che mancassero 30 °C per raggiungere i -230 previsti, ma nessun direttore di lancio sarebbe così pazzo di autorizzare un volo con tale allarme in corso. Si è scoperto soltanto dopo che la temperatura era giusta e ad essere difettoso era il sensore che la misurava. Nel tentativo del 2 settembre invece, il malfunzionamento era nel dispositivo di sgancio rapido della linea di raffreddamento, uno di quei tubi che vediamo staccarsi dal razzo appena comincia a salire. Nel dettaglio, pare che non riuscisse a far passare una quantità sufficiente di idrogeno liquido. E come disse l’astronauta Alan Shepard: “E’ stata una lunga strada, ma siamo qui, pronti.”

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