mercoledì, 23 Aprile 2025
Gli orsi non esistono, la recensione del film di Jafar Panahi da Venezia 79
L’epilogo de Gli orsi non esistono è il perfetto esempio di come tecnica e creatività possano tradurre in immagini un’idea, uno slancio dell’animo, persino una posizione politica. È paradossale, perché Jafar Panahi non potrebbe nemmeno imbracciare una macchina da presa: dopo il suo arresto nel 2010 per propaganda contro il regime, al cineasta iraniano è stato infatti proibito di scrivere o dirigere film per 20 anni. Ma Panahi non si è mai fermato, e il cinema è divenuto per lui un’attività clandestina, rischiosa ma necessaria come l’aria.
Non si tratta solo di espressione personale, ovviamente. La sua è un’arte che guarda alla collettività, ricca di impegno civile anche quando si fa più intimista. Dalla sua condanna in poi, il regista è diventato parte integrante dell’opera, perché se esiste qualcosa che nessun regime potrà mai togliergli è proprio sé stesso. Anche ne Gli orsi non esistono il protagonista è proprio lui. Impossibilitato a lasciare il paese, Jafar lascia Teheran e si trasferisce in un paesino sul confine con la Turchia, per dirigere da remoto una troupe che si trova in una vicina città turca. Al centro del film troviamo una coppia che cerca dei passaporti falsi per trasferirsi in Europa, e la loro storia si alterna a quella dello stesso Panahi, tormentato dai superstiziosi abitanti del villaggio per aver scattato una foto compromettente. Mentre l’autore si difende dalle accuse, nel paese rischia di consumarsi una faida. Intanto, la coppia in Turchia è frustrata dalla situazione in cui si trova, e dal fatto che il cineasta voglia riprendere tutto ciò che succede.
La costruzione narrativa è stratificata, poiché leggibile su diversi livelli di realtà e finzione. All’inizio parrebbe un film “tradizionale”, ma un’elegante transizione di montaggio rivela che non è così: c’è sempre Panahi davanti allo schermo, ormai inscindibile dalle sue opere. La vicenda della coppia riflette un desiderio di fuga che verosimilmente prova lui stesso, e che cerca di sublimare attraverso il cinema; ma i personaggi non sono burattini, sono esseri umani coinvolti in problemi reali, e lui stesso riconosce la limitatezza del proprio potere in quanto demiurgo: non può controllarli in eterno. Ciò che può fare, invece, è usare la macchina da presa come testimone della realtà. È il suo strumento per decodificarla, ma anche per esporne le ingiustizie.
Non si tira indietro, Panahi, e il finale ha una straordinaria forza simbolica (nonché profetica, se consideriamo il suo ennesimo arresto dello scorso luglio, quando si è recato nell’ufficio del procuratore per indagare sulle condizioni dei colleghi Mohammad Rasoulof e Mostafa al-Ahmad). L’artista non può sottrarsi a una lotta giusta, nemmeno quando può contare su facili scappatoie. Il titolo de Gli orsi non esistono fa riferimento agli orsi che costituirebbero un pericolo nei dintorni del paese, ma che in realtà sono una fandonia, storie inventate per spaventare i viandanti. Ebbene, Panahi non se ne preoccupa: li sta affrontando da una vita, sono le istituzioni che cercano di soffocare il suo lavoro, ma l’esperienza gli ha insegnato che non esistono. Basta non averne paura, e l’arte trova la sua strada.
Ancora una volta, il regista scova un modo creativo per rielaborare la sua situazione, elevandola allo stato di arte. Gli orsi non esistono è l’opera di un uomo pacato ma caparbio, che non teme di schierarsi in prima linea per la giustizia e la libertà d’espressione. Un grande valore politico, oltre che artistico: mai come in questo caso, le due dimensioni sono inseparabili.
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