Les Miens è la mosca bianca di Venezia 79, la recensione

Tra i tanti film in Concorso alla Biennale, probabilmente nessuno è più fuori posto, più curioso e per certi versi originale di Les Miens di Roschdy Zem, film ibrido a livello di identità, percorso e finalità.

Un incidente a dir poco bizzarro

Per Moussa (Sami Bouajila) la vita è veramente amara in questo momento. Lasciato senza una spiegazione dalla moglie, è depresso, triste e rabbioso, con un difficile passato familiare con cui fare i conti e per di più senza l’idea di come rivoluzionare la sua vita. 
Una sera una collega lo invita in discoteca, qui però a causa dell’assunzione di alcune droghe, sviene e sbattendo la testa si ritrova in una situazione alquanto detestabile e curiosa: ha due enormi lividi e rigonfiamenti sulla testa, ma soprattutto il trauma cranico lo ha lasciato con una sensazione di sonnolenza a cui si accompagna un carattere che definire irritabile è a dir poco riduttivo.

Con tutto questo dovranno fare i conti i suoi parenti, a partire dal fratello Ryad (Roschdy Zem) giornalista televisivo famoso e vincente, alla sorella Samia (Meryem Serbah), l’altro fratello Salah (Rachid Bouchareb) fino ai vari figli e nipoti che si troveranno malauguratamente sulla sua strada.

Les Miens ci guida verso un percorso che più che di guarigione è di liberazione, interiore ed esteriore, pur dovendo fare i conti con una situazione deprimente in cui però la sceneggiatura di Roschdy Zem e Maïwenn inserisce a intermittenza un umorismo travolgente e agrodolce che copre le nubi dietro un’operazione cinematografica forse un po’ confusa o perlomeno non sempre chiara.

Perché alla fine che cos’è Les Miens? Una commedia? Un dramma? Non è ben chiaro ed in questa incertezza vi è la sua grande qualità complessiva e anche il suo difetto più palese, qualcosa che più che si va avanti e più pare essere un limite in virtù del quale la sua presenza al Concorso non è che abbia tanto senso, è più un film da Orizzonti per intenderci. Ma tant’è.

Due fratelli e due modi diversi di essere antipatici

Les Miens ha i due pilastri narrativi in Moussa e Ryad, in questi due fratelli completamente opposti per carattere e vita, eppure con quell’incidente resi uno l’immagine speculare dell’altro, al netto delle complete differenze che li rendono due immagini speculari anche dell’essere figli di migranti. 
Moussa da passivo, malinconico e disperato, diventa una sorta di Contrario… al contrario. Mentre i leggendari guerrieri sacerdoti dei nativi americani dicevano appunto sempre il contrario della verità, lui la dice senza filtro alcuno, di base ferendo nei modi più creativi chi gli sta attorno.

Caustico, rabbioso, cinico ed egoista, ne ha per tutti, mettendoli di fronte alla loro incapacità di essere onesti con se stessi e con gli atri, di dire la verità sulla loro vita e come intendono guidarla, ma è anche una sorta di scheggia impazzita, un’anima persa e priva di empatia alcuna.

Ryad invece è il maschio dominante del gruppo, è virile e di successo, famoso e con una fidanzata costretta a seguirlo e ad adattarsi sempre al suo percorso. Di base è un individuo egoista, accentratore, insensibile e vanitoso, che però viene costretto dal malore del fratello a fare un’autocritica totale.

Alla fin fine Les Miens parte come un film su Moussa, diventa un film su Ryad, o meglio ancora sulla famiglia, intesa come universo comunicante a compartimenti, costretto a dipendere dai singoli elementi e a collaborare, nido di serpenti che però sanno sempre trovare il modo di mordersi senza uccidersi.

Non vi è la retorica ma la contrapposizione, la rivalità, il rinfacciarsi questo o quel tipo di trascorso, il perdurare di uno stato d’animo negativo eppure affascinante nella sua imprevedibilità, che dona a Moussa l’essenza di agente del caos.

Un film che non spicca il volo

Tuttavia Les Miens commette infine l’errore di non spingere completamente sull’acceleratore, di accontentarsi di avere una sorta di viaggio dentro una vita, anzi più vite disastrate con cui fare i conti e che ci donano quello che poi è un vecchio adagio: guardarsi da fuori ed essere meno vittimisti.

La regia è molto intima, molto gradevole, il cast è ben diretto e ben assortito, ci arriva una famiglia molto poco televisiva o scontata, lontano dagli stereotipi, ma vicina alla realtà nelle piccole miserie, i piccoli veleni e peccatucci con cui devono fare i conti.

Si parla di cambiamento, di capacità di tagliare con il passato, di abbandono pure, perché il male di Moussa è una sorta di necessità di accettare il fatto che nulla sarà con te per sempre, nel bene così come nel male.

La sacralità della famiglia è forse resa in modo troppo spinto, però il dinamismo dei dialoghi, così come l’evoluzione dei personaggi sono sicuramente di grande valore e incisività, in cui emerge anche la necessità di difendersi da tutti, anche dai parenti.

Moussa è una sorta di Joker sotto naftalina, è un agente del caos che non fa prigionieri dentro la sua vita e comincia a rivendicare maggiormente di essere presente a questo mondo. Si ride spesso e volentieri, poi però ci si trova anche spesso nello sconforto più totale per l’evidente sofferenza che fa muovere lui e gli altri rami di questo albero storto e strano, contraddittorio e spesso senza armonia.

Al film manca un finale coeso e con una sufficiente capacità di portare oltre il discorso, di toccare vette intime più alte di quelle di una mera riflessione sulla verità nella propria vita. Tuttavia nell’insieme serve a passare 86 minuti non troppo stressanti ma neppure troppo superficiali.

Certo, rimane la sensazione di una occasione sprecata, di un piatto con troppi ingredienti non abbastanza armonici per creare una sinfonia di chiara consistenza e finalità.

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