martedì, 22 Aprile 2025
Cyberpunk: Edgerunners, bruciamola pure questa città del futuro
This fire is out of control, I’m going to burn this city, burn this city, cantano i Franz Ferdinand nella sigla di Cyberpunk: Edgerunners, anime da dieci episodi disponibile dalla scorsa settimana su Netflix. E gli artefici di questa serie d’animazione, Hiroyuki Imaishi e i suoi colleghi di Studio Trigger, di incendi e di città da radere al suolo se ne intendono eccome. Seguono un paio di considerazioni su una delle serie anime più sorprendenti – letteralmente: è stata una sorpresa un po’ per tutti – degli ultimi mesi.
IL CYBERPUNK SULLE DUE SPONDE DEL PACIFICO
Dunque. Pur presentando una storia e dei protagonisti diversi, Cyberpunk: Edgerunners si basa sul mondo del videogame Cyberpunk 2077 di CD Projekt, uscito agli sgoccioli del 2020 in un tripudio di bug e problemi tecnici. Se c’era una cosa in cui quel gioco è risultato da subito eccellente, però, era proprio il world building, il mettere in piedi – pescando dal gioco di ruolo da cui il franchise ha avuto origine, il Cyberpunk del 1988 – una megalopoli come Night City. Sporca nonostante tutte le sue luci al neon e i suoi ologrammi, decadente e popolata da trafficanti di innesti e memorie, tecnologie del futuro e una voglia matta di andarsene da lì. Qualcosa di cui sarebbero stati orgogliosi i padri della narrativa cyberpunk, come William Gibson, Bruce Sterling e gli altri, giù fino a Neal Stephenson.
Ma se il cyberpunk, come “non movimento”, ha radici profondamente americane, parallelamente alle sue più celebri espressioni nel mondo occidentale (il tech noir di Blade Runner, in particolare, per il suo enorme impatto sull’immaginario collettivo), la stessa sensibilità esplodeva anche in Giappone, a cominciare dalle opere di Otomo nei primissimi anni 80. E, di certo, sono stati proprio manga e anime a fungere da volano per questo tipo di ambientazione e storie negli anni Novanta, grazie all’esplosione negli USA dell’intrattenimento di massa nipponico. Dove sarebbero oggi i mondi cyberpunk senza il Ghost in the Shell di Mamoru Oshii, ad esempio? Studio Trigger, il team artefice di Cyberpunk: Edgerunners, risponde alla domanda in modo chiaro: da nessuna parte.
MA SE NON HO GIOCATO IL VIDEOGAME?
Non a caso Ghost in the Shell e la sua protagonista, il maggiore Kusanagi, sono citati più volte esplicitamente in Cyberpunk: Edgerunners. Dunque siamo in presenza di una serie anime che riprende un’ambientazione sviluppata da una software house polacca partendo da un gioco di ruolo cartaceo statunitense, e la ricopre di influenze proprie dell’animazione giapponese. Che si tratti di un’opera di Studio Trigger è evidente del resto sin dal primo secondo a chiunque abbia un minimo di dimestichezza con gli anime degli ultimi vent’anni. Guardare in azione David – studente trascinato dagli eventi in una squadra di edgerunner che conducono missioni sporche per vari committenti – Lucy, Maine e gli altri in azione significa rivederci in filigrana le devastanti esplosioni del film Promare e le spacconate di Kill la Kill. O, andando dritti al DNA dei membri dello studio, di Sfondamento dei cieli Gurren Lagann, realizzata ai tempi in cui Imaishi e compagni lavoravano per Gainax.
Aver giocato Cyberpunk 2077 permette di cogliere le tante citazioni sparse nella serie, sì, ma non è strettamente necessario. Nel senso: non avendo completato il gioco non saprete chi è quel certo personaggio secondario o dove si sono già visti quel cyborg minaccioso, quella banda di punk con le lucette, quell’arma o quei bar, ma la storia di Cyberpunk: Edgerunners resta perfettamente godibile lo stesso. Ed è un bene, perché è una gran bella storia.
TAGLIA DOVE PUOI
La vicenda di David e dei suoi nuovi e armatissimi brothers in arms, che coprono tutte le varie tipologie di membri di una super-squadra in un anime giapponese (la femme fatale, il gigante, la ragazzina, che qui parla – e spara – come Harley Quinn…), sembra avere un incipit ordinario, con il solito nuovo arrivato a fungere da punto d’accesso per gli spettatori in un nuovo mondo, ma si chiude in modo quasi poetico, dopo aver fatto venir giù qualunque cosa. Un finale che ovviamente non stiamo qui a spoilerarvi, ma che è perfettamente in linea con tante storie di questo tipo di fantascienza.
Dove può, Cyberpunk: Edgerunners mette in mostra i muscoli di Trigger, con sequenze animate divinamente, che proiettano chi guarda nel bel mezzo dell’azione. Il problema è semmai il dove non può: è evidente che dietro a questa produzione non c’era il budget non solo di film come Promare, ma anche di molte serie nipponiche per la TV. Edgerunners cerca di tagliare i costi ovunque può, ricorrendo a lunghi fermo immagine, a dialoghi inquadrati da lontanissimo, in scene altrettanto statiche, al riciclo di alcune sequenze e animazioni. La cosa, una volta fatto il callo, non è più di tanto fastidiosa. E se nella parte centrale si nota maggiormente l’approccio da spending review, i primi episodi vantano comunque tante scelte registiche per nulla banali, e gli ultimi compensano con botti, esplosioni e le sorti della banda appese a un filo. Lo stile, in altre parole, non manca quasi mai.
ANIME IN MIRRORSHADES
I colori sono quelli, di grandissimo impatto e con tantissimo arancione (il verde dei monitor, nel post-Matrix, non funziona più come colore del futuro: troppo visto) del gioco, il character design è efficacissimo, e insomma si sarà capito: Edgerunners ci è piaciuta molto. E se è pur vero che ne sarebbe potuto venir fuori, con un budget d’altri tempi a disposizione, un film davvero incredibile, anche come serie, e pur prendendo tutte le scorciatoie del caso, resta una produzione davvero notevole. E, a differenza proprio di altri lavori di Trigger, anche una in cui la confezione non schiaccia mai la sostanza, la forma non rappresenta mai un’esuberante supplente di una storia esile. Anzi. Alla fine della giostra, quel che ti resta addosso sono soprattutto le riflessioni sulla hubris del post-umano, tipiche del genere.
Vogliamo bruciarla allora questa città, come propone la voce del buon Alex Kapranos dei FF nella sigla? Dai, sì. Occhio solo a quel velo di nostalgia del futuro che vi lascerà averne respirato le ceneri.
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