lunedì, 25 Novembre 2024
Indiana Jones e io: i predatori di una lampada da 25mila lire
Questa storia, la storia del mio rapporto con la saga di Indiana Jones, ha inizio per ovvie ragioni molti anni prima della primavera del 1989. Ma ci arriviamo, come avrebbe detto Ted Mosby, quando ammorbava per anni quei due poveri figli con le sue divagazioni.
La primavera del 1989, dunque. Faccio la terza media, siamo in gita a Gubbio. Indiana Jones e l’ultima crociata, quello che potremmo anche definire qui, su due piedi, il più bel terzo capitolo della storia del cinema, non è ancora arrivato nelle sale italiane (ci sarebbe voluto ottobre), ma la sua uscita negli USA è imminente, e non si parla d’altro. Tutto il pianeta è tornato ad amare le avventure polverose di questo archeologo con il nome di un cane, ma non è che abbia mai smesso di farlo. Noialtri ragazzini dell’epoca non si aspettava altro. Quello, e i due giochi che aveva in cantiere Lucasfilm Games, e che riempivano le pagine delle riviste di settore. E sarà stata l’attesa, sarà stata l’emozione, questo mi ha portato involontariamente a distruggere una lampada dell’albergo con un colpo di frusta. Sigla.
INDIANA PIPPS, PAPERINIK E IL CINEMA DEI GIOVANI THUGS
Riavvolgiamo il nastro. Indiana Jones lo scopro, come tanti, sulle pagine di Topolino. Nella rubrica dedicata alle nuove uscite al cinema, alle elementari mia fonte principale d’informazione su quello che girava in sala, e nelle mille pubblicità e iniziative a tema Indy che popolano il settimanale. Il fatto che i tre film di Indiana Jones (sorvoliamo su quella leggenda metropolitana di cattivo gusto che parla dell’esistenza di un quarto capitolo del 2008) abbiano puntellato gli anni 80 in maniera così disciplinata – 1981, 1984, 1989 – ha fatto sì che l’influenza monster di Indiana Jones non abbia mai fatto a tempo ad affievolire.
E così, tra una pellicola e l’altra, scoprivi che le merendine ti regalavano una Giacca dell’Avventura con un kit dell’avventura. Per? Boh, cercarti un’avventura. Da qualche parte. Vedevi Paperinik mettersi alla ricerca dell’”arca dimenticata”, in una delle più riuscite parodie Disney dell’epoca. Assistevi alla nascita di Indiana Pipps, un altro cugino a tema di Pippo. E il tema, questa volta, era un tizio che odia i nazisti quanto i serpenti.
In tutto ciò, ai tempi de I predatori dell’arca perduta ero ancora affiliato al club dei supermocciosi, e quindi niente cinema. L’ho visto, come tanti coetanei, in TV la prima volta che l’hanno passato, e in quel mondo ci sono rotolato dentro come un masso attivato da un trabocchetto. Ma, arrivato Il tempio maledetto, ero già nel pieno della fase “Portatemi a vedere questo per piacere”, con cui mi infilavo nelle orecchie di quei poveri martiri dei miei e non smettevo fino a quando non mi ritrovavo sulla poltroncina di un cinema con un secchiello di popcorn in mano, avvolto dagli ululati dei coetanei. O in punizione e senza giocattoli e videogiochi per due-tre pomeriggi, dipende da quanto a lungo e con quali metodi snervanti veniva condotta la trattativa domestica.
E così a vedere il secondo Indiana Jones mi ci portano, in un cinema parrocchiale, in quel settembre dell’84. In mezzo a una bolgia di ragazzini più casinisti e feroci dei Thugs che nella pellicola facevano sacrifici umani a Kali. I genitori che fungono da truppe di supporto ripetono più volte, durante la visione, che quel film non è forse adatto a otto-novenni come noi giovani wild boys con le polacchine ai piedi. E troppa violenza, e gli ha strappato il cuore, signora mia, dove andremo mai a finire, è sicuramente tutta colpa dei videogheimz e dei cartoni animati giapponesi.
E giuro, quest’ultima cosa, quel pomeriggio, l’ho sentita davvero. Pronunciata da un’austera madre con occhiali tipo Craxi e l’aria di chi poteva avere tipo 95 anni. Pure se, facendo due conti, è facile che quella donna fosse molto più giovane di me adesso. Ma non divaghiamo. Il punto è che tutta quella violenza dei videogheimz e degli anime non è che sia riuscito davvero a vederla. Al più, si intuiva. Perché quel cinema parrocchiale era praticamente all’aperto, il panno era coperto da un’illuminazione a giorno, non si vedeva – se proprio vogliamo fare i tecnici – una cippa di niente. Diciamo che l’avventura di Indy e Short Round, più che guardarla, l’ho ascoltata.
Il fantastico, tetro, avventuroso radiodramma intitolato Indiana Jones e il tempio maledetto.
JONATHAN, UANATHAN E LA SCOLARESCA ALL’ARMA BIANCA
Ma senza Indiana Jones non avremmo avuto Jonathan – Dimensione Avventura del povero Ambrogio Fogar, e senza Jonathan non avremmo avuto la parodia Uanathan, a Bim Bum Bam. Senza Indy non ci sarebbero stati dei videogheimz meravigliosi come Indiana Jones and the Fate of Atlantis, certo, ma neanche i Tomb Raider e gli Uncharted. Non così, non come li abbiamo conosciuti. Questo incredibile frullatone di vecchi serial cinematografici della Republic Pictures, ispirato a tante cose che a George Lucas e Steven Spielberg piacevano da ragazzini (compresi i fumetti di Carl Barks da cui viene l’iconico masso rotolante) avevano cambiato il cinema d’avventura e creato il suo eroe perfetto.
Arrivati agli sgoccioli degli anni 80, il culto di Indy si nutriva di continui passaggi in TV e di passaggi di mano di videocassette. L’ultima crociata era atteso come poche altre cose al mondo. Mancava poco che al posto della campanella, a scuola, mettessero qualcuno a fischiettare l’immortale tema di John Williams. Quel tema che voleva e avrebbe sempre voluto dire, in seguito, avventura, emozioni, il sorriso beffardo di un eroe che sta sempre lì a fare casini perché si diverte, o perché è troppo impegnato a non perdersi il cappello.
Arriviamo così alla primavera del 1989, alla grande vigilia dell’arrivo del terzo (e per il momento) ultimo film di Indiana Jones. E siccome in quella gita ci hanno portato a visitare luoghi di pace come Assisi, l’intera scolaresca ha acquistato armi medioevali di varia natura: mazzafrusti, spadine, mini balestre, inquietanti archi con faretra dalla foggia mesoamericana. Io compro una frusta. Perché sembrava proprio quella di Indiana Jones. E se vi state chiedendo quanto possa essere pericoloso armare fino ai denti una banda di ragazzini delle medie, la risposta è “abbastanza”. Ma non è morto fortunatamente nessuno. Cioè, tranne quella lampada.
Perché, nella totale incoscienza di quelle menti fresche che avevamo attaccate (poco) sul collo, le armi andavano provate. E – don’ try this at home, ma manco in hotel – corridoi e stanze di quell’alberghetto di quart’ultima categoria di Gubbio, chiaramente un lupanare in disuso, si animarono la notte di palle chiodate roteanti, frecce scoccate, perigliosi duelli rusticani simulati. Io, invece, dovevo far schioccare quella frusta. Come Indiana Jones, o che diavolo l’avevo comprata a fare?
Solo che quella non voleva saperne di prodursi in un sonoro, soddisfacente “SNAP!”. Ne uscivano solo mezzi sibili moscissimi. E prova uno, prova due, prova tre, prova cinquanta, solo alla fine si sente un poderoso schiocco. Seguito, quasi all’unisono, da un “CRACK!”. Avevo spaccato in due il coprilume in plastica della lampada sul mio comodino.
Con una vera ladrata da albergo caprese di Fantozzi, mi hanno fatto scucire 25mila soldi del vecchio conio per quella lampada di melma che, tutta intera, ne costava al massimo 5 alla Standa. Con tanto di cazziatone urbi et orbi da venticinque minuti del più assente e vigliacco dei professori. Mancava poco chiamasse le TV locali. Ma al di là del fatto che in questo modo non avevo più soldi per comprare altri souvenir – grazie al cielo? – accolsi il tutto, cazziatone compreso, cercando di celare quel mezzo sorriso che proprio non se ne andava dalla faccia. Oh, c’ero riuscito. Avevo fatto schioccare quella frusta proprio come Indiana Jones.
E quel vile mangiamosche di Belloq e i nazi e il mio professore di educazione tecnica MUTI.