I Falchi del Cremlino alla caccia dell’Ucraina e di Putin

Mentre infuriano le battaglie per la riconquista della regione di Kherson e per il controllo di Zaporihizia (il capoluogo è ancora in mano ucraina), nel dietro le quinte del Cremlino la domanda che più circola è: sostituire Vladimir Putin è uno scenario davvero possibile? In altri tempi questa domanda avrebbe avuto facile risposta, niet. Ma oggi vale quantomeno la pena domandarselo, dal momento che la sua leadership è stata pubblicamente contestata.

Non certo dal popolo, che ha un peso assai relativo nella Russia dei siloviki, l’élite dei burocrati russa, ovvero quei mandarini di Stato che dalla caduta dell’Unione Sovietica in poi hanno occupato i «ministeri della forza» e dunque le amministrazioni chiave per il controllo del potere statale. Sono loro, in ultima istanza, ad avere l’unica leva per mantenere o defenestrare il potente leader della Federazione.

Infatti, nonostante le proteste seguite alla mobilitazione parziale (o generale, a seconda dei punti di vista e del significato criptico dei decreti emanati dal governo) e nonostante il crescente peso delle sanzioni, il consenso popolare di cui gode Putin nella Russia profonda rimane alto. Ma a Mosca, la disastrosa condotta della campagna militare impone a più di una fazione della casta militare di iniziare a mettere in dubbio la sua capacità di guidare il Paese verso una fine del conflitto che non sia umiliante per il Paese.

Le suggestioni che portano a ritenere che il presidente russo non abbia più il controllo dei suoi sottoposti si sostanziano essenzialmente nelle intemerate dei «falchi del Cremlino», che da qualche settimana – precisamente dalla disfatta patita dall’armata russa a Kharkiv – hanno iniziato a farsi sempre più loquaci. In prima fila c’è il delfino Dmitri Medvedev, l’uomo che in tandem con Putin ha guidato la Russia per molti anni e che, sino allo scorso febbraio era considerato certamente più facile da trattare di Putin. Adesso, però, l’ex premier e presidente non solo alimenta la retorica bellicista favorendo il disastro sul campo, ma si è fatto addirittura più realista del re: al punto che le sue minacce sull’uso dell’arma atomica e il suo improvviso odio verso tutto ciò che è espressione dell’Occidente, hanno costretto lo stesso presidente a rintuzzare certe sue dichiarazioni, definite «emotive» e frutto dell’«amore per la patria».

Medvedev non è però il solo a minacciare l’uso del nucleare. A dargli corda più di tutti è Ramzan Kadyrov: padrone della Cecenia e convinto militarista (al punto da spedire i figli adolescenti al fronte per dimostrarne il valore), comanda le agguerrite milizie cecene grazie alle quali il Cremlino ha evitato la sconfitta nelle guerre in Georgia (2008) e in Ucraina orientale (2014). La sua influenza è tale che quando si permette di criticare apertamente i generali che guidano l’«operazione speciale», invece di una reprimenda, ottiene il grado di generale colonnello della Federazione russa, conferitogli da Vladimir Putin in persona pochi giorni or sono. A riprova del ruolo e del peso che le sue armate ricoprono oggi nel teatro di guerra.

Il falco Kadyrov non soltanto appoggia l’uso del nucleare, ma minaccia di marciare personalmente su Kiev per «uccidere il presidente nazista Zelensky». E finora Putin lo ha seguito pedissequamente: dopo che il capo della Cecenia aveva annunciato di aver attuato la mobilitazione generale nella sua repubblica – «così si fa quando si è in guerra» – anche Mosca si è comportata di conseguenza. Ora si è spinto a chiedere la rimozione nientemeno che del ministro della Difesa Sergei Shoigu, a riguardo del quale Kadyrov e molti altri falchi suggeriscono addirittura la via del suicidio (e chissà che Putin non lo segua in questa follia e nella prova di forza atomica).

In particolare, lo sostiene Kirill Stremousov, vice-capo russo della regione «annessa» di Kherson: secondo lui, Shoigu avrebbe dovuto già morire «per riparare al grave danno che ha recato al proprio onore e a quello del suo popolo» patendo le molteplici sconfitte sul campo che stanno determinando la debacle completa di Mosca.

Insomma, se il clima è questo, non c’è da star sereni nei vertici del Cremlino. Anche perché Shoigu non è soltanto il numero due della Russia e l’uomo più vicino a Vladimir Putin, ma anche colui il quale – insieme al presidente Putin e al generale Gerasimov, comandante in capo delle forze armate russe – ha in mano i codici per il lancio dell’arma nucleare. Se davvero Putin si convincesse a rimuoverlo, assecondando la sete guerrafondaia di Kadyrov, a chi finirebbero quei codici?

Anche il comandante della Rosgvardia Viktor Zolotov, ex capo dei pretoriani del presidente e ora alla testa delle truppe speciali che operano in Donbass, è da annoverare tra i falchi del regime, grazie all’impiego delle sue truppe, schierate in prima linea in sostituzione degli inefficaci stratagemmi dei molti generali che lo hanno preceduto e che sono stati di conseguenza rimossi: nel quadrante di Kiev, a Kharkiv, nel Mar Nero. In pratica, ovunque Mosca sia andata incontro a sconfitte ed errori di calcolo.

Tra gli oltranzisti senza mostrine, con il passare dei mesi ha preso quota anche la figura di Yevgeny Prigozhin: conosciuto come «lo chef di Putin» per i lucrativi contratti di catering col Cremlino di cui era titolare, è uno dei fedelissimi del presidente russo della prima ora, nonché inventore del gruppo Wagner, le famigerate milizie irregolari schierate da Mosca nelle cosiddette «guerre ibride»: conflitti irregolari dove la strategia militare comporta mezzi non convenzionali, che vanno dai cyber attacchi alla propaganda, dai sabotaggi elettorali al sobillare le rivolte, fino alle operazioni «false flag» e agli omicidi politici mirati. Li abbiamo visti operare in Libia, Siria, Somalia e in altri teatri di crisi dove il Cremlino preferiva non comparire direttamente.

Figura schiva, Prigozhin era stato dato più volte per deceduto (l’ultima quando il quartier generale della Wagner a Popasna, nel Lugansk, era stato distrutto dall’artiglieria di Kiev); invece, all’indomani della controffensiva ucraina, ecco che è rispuntato. Un video diffuso dai filorussi lo vede arringare ai detenuti di un carcere: Putin lo ha mandato ad arruolare i criminali promettendo loro l’amnistia in cambio del sacrificio di combattere per la madre patria. «Non un passo indietro» è uno dei suoi macabri motti. Molti interpretano questo segnale come un gesto di disperazione del presidente e di un mancato allineamento con la Difesa russa, che disdegna questi metodi da mafia russa e che gettano disonore sulla casta militare.

Ed ecco un’altra delle psie del malessere vissuto nei ministeri del potere: affidarsi a simili soggetti può essere una soluzione credibile? «Ce lo vedete Kadyrov seduto al tavolo delle Nazioni Unite?» ironizzano alla Duma i più scettici.

Tra loro, pur annoverati tra i falci, figurano Vyacheslav Volodin, speaker della Duma, il quale ha sempre sostenuto le ragioni di Mosca, che combatte non solo «contro le formazioni naziste armate, ma anche contro la Nato»; e l’ex capo del Fsb e attuale capo del Consiglio di sicurezza, Nikolai Patrushev. Ovvero uno dei principali teorici dell’uso delle debolezze occidentali per espandere il potere geopolitico della Russia in Europa e oltre. Colui il quale, insieme al fondatore di Mežprombank Sergei Pugačëv, ha contribuito forse più di tutti all’ascesa al potere dello zar.

Eppure per Patrushev, così come per il ministro degli Esteri Sergei Lavrov, si dovrebbe più ragionevolmente parlare di «colombe», visto che entrambi non hanno mai interrotto i canali di comunicazione col nemico e sono indicati come papabili per l’eventuale transizione post Putin. Qualcuno – specie a Washington – ci crede davvero.

Nessuno dei due, peraltro, ha mai fatto davvero parte dell’inner circle del presidente, ovvero la fazione di San Pietroburgo che ha fatto quadrato intorno al leader e che detiene non solo il controllo delle parti più succose dell’economia russa, ma soprattutto un accesso privilegiato al presidente, sempre più isolato tanto dalla fazione moscovita quanto nel gabinetto di guerra. Ovvero da chi realisticamente crede che sia giunto il tempo di un appeasement.

La fazione di San Pietroburgo, oltretutto, è composta di civili che non sono collegati con i terminali di comando del Cremlino, e somigliano molto più a degli «yes men» che non a dei decisori politici. È, questo, un riflesso della storia personale di Putin: quando cioè, per riportare l’ordine nel Paese, il suo predecessore Boris Eltsin chiese aiuto ai servizi segreti, che presero a controllare tutti gli apparati dello Stato.

È la cosiddetta «corporazione cekista», cioè degli uomini provenienti dalla polizia segreta che, acquisito un potere immenso, iniziarono a percepire se stessi come investiti da una missione salvifica: prevenire la disgregazione della Russia e la sua regressione nel caos, ricostruendo uno Stato forte e ripristinando il prestigio e la potenza imperiale perdute.

Ma quella ricetta non ha funzionato evidentemente. E adesso, nel momento più buio e difficile della Russia, Vladimir Putin sembra sul punto di ripetere l’errore del suo mentore Eltsin: consegnare il Paese in mano a un’élite di oscuri signori che fondano il proprio potere soltanto sulla forza bruta, e non invece sulla negoziazione con la comunità internazionale. Il che sarebbe capace di precipitare la «nuova Russia» che il presidente immaginava, sull’orlo di un olocausto nucleare.

Soltanto poche ore fa, una fonte dell’intelligence russa che avrebbe intenzione di defezionare, si sarebbe rivolta a Washington con queste parole: «Dall’inizio dell’occupazione abbiamo assistito a un crescente allarme nel circolo ristretto di persone che circonda Putin. Ci sono molte persone convinte che la guerra non sta andando bene o va nella direzione sbagliata. A voi tirare le somme».Mentre infuriano le battaglie per la riconquista della regione di Kherson e per il controllo di Zaporihizia (il capoluogo è ancora in mano ucraina), nel dietro le quinte del Cremlino la domanda che più circola è: sostituire Vladimir Putin è uno scenario davvero possibile? In altri tempi questa domanda avrebbe avuto facile risposta, niet. Ma oggi vale quantomeno la pena domandarselo, dal momento che la sua leadership è stata pubblicamente contestata.

Non certo dal popolo, che ha un peso assai relativo nella Russia dei siloviki, l’élite dei burocrati russa, ovvero quei mandarini di Stato che dalla caduta dell’Unione Sovietica in poi hanno occupato i «ministeri della forza» e dunque le amministrazioni chiave per il controllo del potere statale. Sono loro, in ultima istanza, ad avere l’unica leva per mantenere o defenestrare il potente leader della Federazione.

Infatti, nonostante le proteste seguite alla mobilitazione parziale (o generale, a seconda dei punti di vista e del significato criptico dei decreti emanati dal governo) e nonostante il crescente peso delle sanzioni, il consenso popolare di cui gode Putin nella Russia profonda rimane alto. Ma a Mosca, la disastrosa condotta della campagna militare impone a più di una fazione della casta militare di iniziare a mettere in dubbio la sua capacità di guidare il Paese verso una fine del conflitto che non sia umiliante per il Paese.

Le suggestioni che portano a ritenere che il presidente russo non abbia più il controllo dei suoi sottoposti si sostanziano essenzialmente nelle intemerate dei «falchi del Cremlino», che da qualche settimana – precisamente dalla disfatta patita dall’armata russa a Kharkiv – hanno iniziato a farsi sempre più loquaci. In prima fila c’è il delfino Dmitri Medvedev, l’uomo che in tandem con Putin ha guidato la Russia per molti anni e che, sino allo scorso febbraio era considerato certamente più facile da trattare di Putin. Adesso, però, l’ex premier e presidente non solo alimenta la retorica bellicista favorendo il disastro sul campo, ma si è fatto addirittura più realista del re: al punto che le sue minacce sull’uso dell’arma atomica e il suo improvviso odio verso tutto ciò che è espressione dell’Occidente, hanno costretto lo stesso presidente a rintuzzare certe sue dichiarazioni, definite «emotive» e frutto dell’«amore per la patria».

Medvedev non è però il solo a minacciare l’uso del nucleare. A dargli corda più di tutti è Ramzan Kadyrov: padrone della Cecenia e convinto militarista (al punto da spedire i figli adolescenti al fronte per dimostrarne il valore), comanda le agguerrite milizie cecene grazie alle quali il Cremlino ha evitato la sconfitta nelle guerre in Georgia (2008) e in Ucraina orientale (2014). La sua influenza è tale che quando si permette di criticare apertamente i generali che guidano l’«operazione speciale», invece di una reprimenda, ottiene il grado di generale colonnello della Federazione russa, conferitogli da Vladimir Putin in persona pochi giorni or sono. A riprova del ruolo e del peso che le sue armate ricoprono oggi nel teatro di guerra.

Il falco Kadyrov non soltanto appoggia l’uso del nucleare, ma minaccia di marciare personalmente su Kiev per «uccidere il presidente nazista Zelensky». E finora Putin lo ha seguito pedissequamente: dopo che il capo della Cecenia aveva annunciato di aver attuato la mobilitazione generale nella sua repubblica – «così si fa quando si è in guerra» – anche Mosca si è comportata di conseguenza. Ora si è spinto a chiedere la rimozione nientemeno che del ministro della Difesa Sergei Shoigu, a riguardo del quale Kadyrov e molti altri falchi suggeriscono addirittura la via del suicidio (e chissà che Putin non lo segua in questa follia e nella prova di forza atomica).

In particolare, lo sostiene Kirill Stremousov, vice-capo russo della regione «annessa» di Kherson: secondo lui, Shoigu avrebbe dovuto già morire «per riparare al grave danno che ha recato al proprio onore e a quello del suo popolo» patendo le molteplici sconfitte sul campo che stanno determinando la debacle completa di Mosca.

Insomma, se il clima è questo, non c’è da star sereni nei vertici del Cremlino. Anche perché Shoigu non è soltanto il numero due della Russia e l’uomo più vicino a Vladimir Putin, ma anche colui il quale – insieme al presidente Putin e al generale Gerasimov, comandante in capo delle forze armate russe – ha in mano i codici per il lancio dell’arma nucleare. Se davvero Putin si convincesse a rimuoverlo, assecondando la sete guerrafondaia di Kadyrov, a chi finirebbero quei codici?

Anche il comandante della Rosgvardia Viktor Zolotov, ex capo dei pretoriani del presidente e ora alla testa delle truppe speciali che operano in Donbass, è da annoverare tra i falchi del regime, grazie all’impiego delle sue truppe, schierate in prima linea in sostituzione degli inefficaci stratagemmi dei molti generali che lo hanno preceduto e che sono stati di conseguenza rimossi: nel quadrante di Kiev, a Kharkiv, nel Mar Nero. In pratica, ovunque Mosca sia andata incontro a sconfitte ed errori di calcolo.

Tra gli oltranzisti senza mostrine, con il passare dei mesi ha preso quota anche la figura di Yevgeny Prigozhin: conosciuto come «lo chef di Putin» per i lucrativi contratti di catering col Cremlino di cui era titolare, è uno dei fedelissimi del presidente russo della prima ora, nonché inventore del gruppo Wagner, le famigerate milizie irregolari schierate da Mosca nelle cosiddette «guerre ibride»: conflitti irregolari dove la strategia militare comporta mezzi non convenzionali, che vanno dai cyber attacchi alla propaganda, dai sabotaggi elettorali al sobillare le rivolte, fino alle operazioni «false flag» e agli omicidi politici mirati. Li abbiamo visti operare in Libia, Siria, Somalia e in altri teatri di crisi dove il Cremlino preferiva non comparire direttamente.

Figura schiva, Prigozhin era stato dato più volte per deceduto (l’ultima quando il quartier generale della Wagner a Popasna, nel Lugansk, era stato distrutto dall’artiglieria di Kiev); invece, all’indomani della controffensiva ucraina, ecco che è rispuntato. Un video diffuso dai filorussi lo vede arringare ai detenuti di un carcere: Putin lo ha mandato ad arruolare i criminali promettendo loro l’amnistia in cambio del sacrificio di combattere per la madre patria. «Non un passo indietro» è uno dei suoi macabri motti. Molti interpretano questo segnale come un gesto di disperazione del presidente e di un mancato allineamento con la Difesa russa, che disdegna questi metodi da mafia russa e che gettano disonore sulla casta militare.

Ed ecco un’altra delle psie del malessere vissuto nei ministeri del potere: affidarsi a simili soggetti può essere una soluzione credibile? «Ce lo vedete Kadyrov seduto al tavolo delle Nazioni Unite?» ironizzano alla Duma i più scettici.

Tra loro, pur annoverati tra i falci, figurano Vyacheslav Volodin, speaker della Duma, il quale ha sempre sostenuto le ragioni di Mosca, che combatte non solo «contro le formazioni naziste armate, ma anche contro la Nato»; e l’ex capo del Fsb e attuale capo del Consiglio di sicurezza, Nikolai Patrushev. Ovvero uno dei principali teorici dell’uso delle debolezze occidentali per espandere il potere geopolitico della Russia in Europa e oltre. Colui il quale, insieme al fondatore di Mežprombank Sergei Pugačëv, ha contribuito forse più di tutti all’ascesa al potere dello zar.

Eppure per Patrushev, così come per il ministro degli Esteri Sergei Lavrov, si dovrebbe più ragionevolmente parlare di «colombe», visto che entrambi non hanno mai interrotto i canali di comunicazione col nemico e sono indicati come papabili per l’eventuale transizione post Putin. Qualcuno – specie a Washington – ci crede davvero.

Nessuno dei due, peraltro, ha mai fatto davvero parte dell’inner circle del presidente, ovvero la fazione di San Pietroburgo che ha fatto quadrato intorno al leader e che detiene non solo il controllo delle parti più succose dell’economia russa, ma soprattutto un accesso privilegiato al presidente, sempre più isolato tanto dalla fazione moscovita quanto nel gabinetto di guerra. Ovvero da chi realisticamente crede che sia giunto il tempo di un appeasement.

La fazione di San Pietroburgo, oltretutto, è composta di civili che non sono collegati con i terminali di comando del Cremlino, e somigliano molto più a degli «yes men» che non a dei decisori politici. È, questo, un riflesso della storia personale di Putin: quando cioè, per riportare l’ordine nel Paese, il suo predecessore Boris Eltsin chiese aiuto ai servizi segreti, che presero a controllare tutti gli apparati dello Stato.

È la cosiddetta «corporazione cekista», cioè degli uomini provenienti dalla polizia segreta che, acquisito un potere immenso, iniziarono a percepire se stessi come investiti da una missione salvifica: prevenire la disgregazione della Russia e la sua regressione nel caos, ricostruendo uno Stato forte e ripristinando il prestigio e la potenza imperiale perdute.

Ma quella ricetta non ha funzionato evidentemente. E adesso, nel momento più buio e difficile della Russia, Vladimir Putin sembra sul punto di ripetere l’errore del suo mentore Eltsin: consegnare il Paese in mano a un’élite di oscuri signori che fondano il proprio potere soltanto sulla forza bruta, e non invece sulla negoziazione con la comunità internazionale. Il che sarebbe capace di precipitare la «nuova Russia» che il presidente immaginava, sull’orlo di un olocausto nucleare.

Soltanto poche ore fa, una fonte dell’intelligence russa che avrebbe intenzione di defezionare, si sarebbe rivolta a Washington con queste parole: «Dall’inizio dell’occupazione abbiamo assistito a un crescente allarme nel circolo ristretto di persone che circonda Putin. Ci sono molte persone convinte che la guerra non sta andando bene o va nella direzione sbagliata. A voi tirare le somme».

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