Le parole di Xi Jinping avvicinano la guerra per Taiwan

Al Pentagono ormai lo confessano senza troppi giri di parole: «Una guerra per Taiwan è possibile». Gli analisti americani la ritengono a maggior ragione una probabilità, dopo aver ascoltato il discorso di Xi Jinping tenuto ieri al XX congresso del Partito comunista cinese. Il presidente-segretario, che sabato prossimo si vedrà incoronato per un terzo mandato alla guida della Cina, lo ha chiarito con dichiarazioni incendiarie: «La riunificazione completa del nostro Paese deve essere realizzata», con la pace o con la forza.

Pochi, a questo punto, dubitano che la «riunificazione» dell’isola ribelle con la madrepatria sia un obiettivo trascurabile dalla leadership cinese: lo stesso Xi Jinping vuole farne il fiore all’occhiello della sua eredità (un po’ come Vladimir Putin intendeva conquistare l’Ucraina). Il motivo? Non solo passare alla storia come lo statista che è riuscito laddove nemmeno Mao Zedong; soprattutto, lo Stretto di Taiwan è a tutti gli effetti un obiettivo strategico ineludibile per il passaggio delle merci cinesi verso il ricco Ovest. E dunque, Xi o non Xi, quella striscia di mare non può essere lasciata in gestione a Paesi ostili (nel frattempo, come noto Taiwan si è data un autogoverno democratico e si è legata fortemente all’Occidente).

Ecco perché la dottrina degli Stati Uniti è orientata alla massima cautela e, soprattutto, alla pianificazione nel medio e nel lungo termine. La priorità? Gestire la catena di produzione delle armi pesanti made in Usa: richiestissime per via delle ottime performance che garantiscono, gli ordinativi sono sempre più difficili da onorare secondo le tempistiche pre-pandemia. Non solo per via della penuria di alcune materie prime funzionali alla produzione (come il titanio o il silicio), ma anche della voracità con cui Paesi in guerra come l’Ucraina ne fanno incetta.

Washington non ha intenzione di svuotare eccessivamente i propri arsenali, nella consapevolezza e in previsione proprio di un intervento militare in aiuto di Taipei. In caso di attacco cinese, infatti, ci sarà bisogno di voluminose spedizioni di sistemi d’arma per le forze armate di Taiwan. Per questo, anche se la produzione – soprattutto di pezzi d’artiglieria – procede a ritmi elevati, gli americani non riusciranno a produrre mezzi sufficienti per condurre due guerre contemporanee: ecco perché invitano l’Europa a fare altrettanto, in previsione di una staffetta nelle forniture.

Produrre sempre più armi

Per capire quanto questo ragionamento sia concreto, basta leggere quanto dichiarato in proposito da Jiří Šedivý, capo dell’Agenzia europea per la difesa (Eda) che coordina i Paesi membri in materia di difesa: «I colleghi statunitensi ci danno dei consigli», dice. «Investite nei vostri strumenti strategici, perché potrebbe arrivare un momento, e potrebbe essere molto presto, in cui noi, gli Stati Uniti, potremmo essere impegnati altrove nell’Asia-Pacifico e non saremo in grado di sostenervi». Dunque, è bene non farsi trovare impreparati.

Poiché al momento l’Ucraina drena enormi risorse belliche e nulla fa pensare che la guerra finisca presto, Washington suggerisce di rinnovare le catene produttive dell’Unione. Come sta già facendo la britannica Bae, che stava per mettere fuori produzione l’M777 (un obice particolarmente performante, già impiegato in Siria, Iraq e Yemen con risultati apprezzabili) fino a che i russi hanno deciso di invadere l’Ucraina: da quel momento, i pezzi d’artiglieria da 155 millimetri hanno conosciuto un’improvvisa svolta, ottenendo grande popolarità in relazione al fatto che i cannoni di precisione stanno davvero cambiando il corso della guerra. Bae ha fatto perciò sapere che intende riavviare la produzione dell’M777.

Insomma, l’industria pesante si prepara al peggio, consapevole che se la domanda cresce una ragione ci sarà. Sostenuta da un crescente nazionalismo, la Cina di Xi Jinping continua imperterrita a flettere i muscoli militari oltre le sue coste, rendendo sempre più reali le minacce su Taiwan, rivendicata dalla leadership comunista nonostante non l’abbia mai governata.

Le forze in campo

Sulla carta, lo strapotere della Cina è evidente. Ragion per cui le forze armate di Pechino possono a buon diritto sognare che il «risorgimento della nazione cinese» giunga ben prima del 2049, anno che segna il centenario della fondazione della Repubblica Popolare Cinese: l’annessione dell’isola sarebbe il miglio modo per festeggiare il centenario e chiudere una lunga pagina di storia rivoluzionaria. Ma Xi Jinping pensa che la riunificazione debba compiersi entro la fine del suo terzo mandato di Xi, il che complica non poco le cose per entrambi.

Pechino contro Taiwan schiera la forza marina teoricamente più potente del mondo: con circa 360 navi da combattimento, ha superato negli ultimi anni persino la flotta statunitense, che oggi dispone di poco meno di 300 imbarcazioni. Vanta 50 fregate, 32 cacciatorpediniere, 60 sottomarini, 21 navi da sbarco e 2 portaerei. E ha anche l’aviazione più grande dell’Asia: nel 2020 contava 1.527 aerei da combattimento e 722 da trasporto, a cui andrebbero aggiunti altri 290 aerei da caccia in dotazione alla marina, 281 elicotteri da attacco e 985 da trasporto.

La marina di Taiwan, invece, ha pochi sottomarini dalla tecnologia datata e una flottiglia di pattugliatori di superficie, inadatti a fermare o anche solo rallentare un tentativo di sbarco. Va meglio all’aeronautica che, però, con appena 260 aerei da combattimento e alcuni caccia prodotti internamente, non riuscirebbe a garantire una «bolla difensiva» a lungo termine sopra lo Stretto.

Non è dunque sullo scontro aperto in mare o nei cieli che si giocano i destini dell’isola. Piuttosto, nella war room di Pechino si ragiona su quanto l’isola sia difendibile dai taiwanesi. Ed ecco spiegati i frequenti sorvoli di jet cinesi sopra lo spazio aereo di Formosa, che servono a Pechino per monitorare la reale condizione delle difese dell’Isola e non certo come mera provocazione.

La strategia del porcospino

Secondo i piani di guerra americani, per scompaginare le unità da sbarco cinesi potrebbe bastare una difesa a oltranza per mezzo dell’artiglieria pesante (da cui le richieste agli europei): l’isola di Formosa dista meno di 180 chilometri dal continente e – con i missili che Washington fornisce e fornirà a Taipei – alle forze d’attacco di Pechino servirebbero settimane per completare le operazioni di sbarco sotto una pioggia di missili diretta contro la flotta. Batterie di sistemi antinave a corto e medio raggio sono già oggi disseminate nei punti nevralgici della costa prospiciente lo stretto di Taiwan. Dunque, fintanto che le difese missilistiche di Taipei non vengono annientate, l’Isola non può essere conquistata.

La chiamano «strategia del porcospino» e consiste nel dotarsi di un ingente arsenale di missili e di una fitta rete di pezzi d’artiglieria, per resistere all’onda d’urto cinese. Inoltre, gli ingegneri di Taipei hanno passato decenni a scavare tunnel e bunker per proteggere civili e soldati proprio a questo scopo, in quanto l’intera strategia di difesa nazionale di Taiwan si basa proprio sul contrastare un’invasione cinese.

Ecco spiegato il motivo per cui Pechino ha mandato osservatori in Ucraina, dove la battaglia per il Donbass si combatte soprattutto a suon di missili e contraeree. I generali cinesi vogliono capire quanto efficaci siano i sistemi d’arma che l’Occidente ha fornito a Kiev, anche perché del tutto simili a quelli che gli Stati Uniti hanno già fornito e forniranno a Taipei, ed eventualmente scoprirne i lati deboli, da sfruttare poi sul campo.

La guerra dunque si avvicina, nella consapevolezza che la grande sfida geopolitica della nostra epoca è proprio quella tra Usa e Cina, con l’isola di Taiwan che è il classico vaso di coccio tra due vasi di ferro. In attesa del casus belli, la speranza è che le amministrazioni in carica giungano a più miti consigli. Perché, in fondo, come dimostra la scellerata invasione dell’Ucraina, si sa sempre come comincia una guerra ma non chi e come è in grado di portarla a termine.

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