martedì, 26 Novembre 2024
La transizione «verde» della Cina è nera come il carbone
Il 20° Congresso nazionale del Partito comunista cinese ha consegnato a tempo indefinito la guida del Paese a Xi Jinping.
Una delle sfide più significative che attendono il leader cinese è sostenere le ambizioni della Cina di riduzione delle emissioni di carbonio e rallentare il riscaldamento globale, e nel contempo consentire che l’economia industriale cinese continui a crescere: una delle condizioni alla base del suo successo personale e della sopravvivenza del regime comunista.
Di qui la necessità di una politica energetica che nel nostro paese verrebbe definita dei “due forni”.
Quello verso l’Occidente, con la conferma degli obbiettivi del raggiungimento del picco delle emissioni di anidride carbonica prima del 2030, e del primato, a livello globale, in termini di sviluppo delle energie rinnovabili, sottolineati dal viceministro dell’ecologia e dell’ambiente Zhai Qing che ha ricordato come la capacità totale di energia rinnovabile abbia superato i 1.000 gigawatt (GW) nel 2021.
L’altro, finalizzato a tutelare la sicurezza energetica del paese, fondata sul carbone ma fatta anche di alleanze con un leader le cui azioni minacciano di rovesciare la lotta globale per il clima: il presidente russo Vladimir V. Putin.
Perché quest’idea bizzarra, tutta occidentale, di cambiare le fondamenta energetiche di un’economia mondiale da 90 trilioni di dollari in un quarto di secolo con la pervicace convinzione che questo possa realizzarsi linearmente è in antitesi con la visione di Xi.
La Cina, secondo il suo leader, deve “consolidare il nuovo prima di demolire il vecchio” con ciò intendendo che prima di buttare alle ortiche un sistema energetico funzionante è necessario che il nuovo sistema abbia dimostrato di essere affidabile (e superiore) all’esistente.
Sembra che Xi abbia capito meglio della Commissione Europea che in una transizione energetica i precedenti vettori energetici difficilmente scompaiono anche quando vengono superati dall’efficienza dei nuovi: il petrolio ha superato il carbone nel 1960 ma oggi il mondo usa tre volte più carbone.
Quindi da un lato il presidente Xi annuncia che la Cina “non costruirà nuove centrali di energia elettrica a carbone all’estero“, dall’altro c’è l’atteggiamento, più sfumato, su come, e se, le 104 centrali a carbone, per complessivi 102 gigawatt (GW), pianificate in 26 paesi verranno effettivamente cancellate. Infatti, secondo il Centre for Research on Energy and Clean Air (CREA), se 26 di questi progetti sembra siano stati effettivamente abbandonati per altri 40 impianti, la cui costruzione è già cominciata o addirittura completata, nulla verrà cambiato ed i restanti 49 sono in una situazione opaca che lascia quindi un ampio margine per future trattative.
Nel suo discorso, Xi Jinping, ribadendo il suo impegno a limitare le emissioni di carbonio, ha però affermato che “Il carbone sarà utilizzato in modo più pulito ed efficiente”, non se, e quando, non verrà più utilizzato. Questo induce a pensare che il disaccoppiamento delle emissioni dallo sviluppo economico sia più un annuncio che una precisa volontà. Oggi il Dragone è il più grande emettitore mondiale di gas serra ed il 63% della sua energia elettrica viene prodotta mediante l’uso di carbone. Secondo la IEA, l’Agenzia internazionale per l’energia, la domanda di elettricità della Cina è aumentata nel 2021 del 10%: un’aggiunta equivalente al consumo totale di energia dell’Africa. Ma soprattutto, secondo l’organizzazione no-profit Global Energy Monitor, a luglio, la Cina aveva 174 proposte di nuove miniere di carbone o espansioni di miniere esistenti che, una volta completate, produrrebbero 596 milioni di tonnellate di CO2 all’anno.
Dati che, osservati con attenzione, indurrebbero a capire che gli attuali sforzi occidentali per la riduzione delle emissioni nella lotta ai cambiamenti climatici saranno compensati dalle emissioni dell’Impero di Mezzo e dai paesi che aderiscono alla Belt and Road Initiative (BRI) come anticipa da tempo uno studio della Tsinghua University che rivelava come la crescita economica di quei paesi, sono 126 le nazioni che aderiscono alla BRI, potrebbe portare a circa 2,7° C il riscaldamento globale anche se il resto del mondo raggiungesse gli obbiettivi degli Accordi di Parigi.
Che la “politica economica della filiera verde” sia nettamente separata, nella visione di Xi dalla “politica climatica“, è evidente a chiunque voglia guardare oltre i luoghi comuni circa gli obbiettivi climatici del Dragone. La prima è fondata sulle installazioni nazionali per le energie rinnovabili che fungono da efficaci progetti dimostrativi per i tour degli ambientalisti occidentali, che al ritorno nei loro paesi faranno pressioni sui loro governi per acquistare queste forme di energia di cui la Cina detiene il monopolio. La seconda è funzione della massima priorità del PCC: la sicurezza energetica, che dipende dall’approvvigionamento dei combustibili fossili e che garantisce, coniugata alla crescita economica, il potere del regime comunista.
Fino a quando l’Europa sarà disposta a vedere indebolirsi il suo sistema industriale con i settori più energivori che hanno ridotto la produzione dell’8,6% da febbraio? Probabilmente è quello che si domandano anche le compagnie minerarie e petrolifere occidentali che, senza investire in nuove prospezioni, stanno ridistribuendo i profitti ai loro investitori in attesa che un mondo meno sicuro, anche dal punto di vista energetico, induca i governi a rivedere i loro piani troppo ambiziosi ed obblighi Xi Jinping a giocare a carte scoperte.
Nel 2021 sia l’Europa che il Nord America hanno mostrato un aumento del consumo di carbone dopo quasi 10 anni di cali consecutivi e pare che la discussione tra economia e clima in Germania sia già iniziata se il ministro dell’economia tedesco Robert Habeck, che è un leader del Partito dei Verdi, interpellato nel merito dell’uso del gas naturale e del carbone e ha detto: “Beh, non c’è bianco e nero nell’energia, ci sono solo sfumature di grigio“.
Non di verde.