La protesta contro il lockdown punta a Xi Jinping

Una protesta senza precedenti. Dozzine di città coinvolte in tutto il Paese. La «capitale economica» Shangai attraversata da manifestazioni anche violente, e i grandi centri industriali – Beijing compresa – che vedono gli studenti delle università guidare le rivolte. Un grido su tutti: «Xi Jinping dimettiti». La sollevazione dei cinesi contro il governo e contro il Partito comunista non ha precedenti nell’epoca del segretariato di Xi, che era appena stato rieletto per il suo terzo mandato, in una prova di forza che ha fatto piazza pulita di ogni avversario e gli ha conferito pieni poteri, blindando la sua leadership per un altro quinquennio.

Ora però, finite le liturgie del partito e la pantomima della rielezione, il suo pugno duro nel perseverare con la politica «zero Covid» gli sta esplodendo in faccia. Test di massa, blocchi e quarantene forzate, tracciamenti digitali oltremodo invasivi e ricoveri coatti: sono queste le mosse di Xi che hanno avuto un costo umano ed economico devastanti per l’intera Cina (in barba a qualsiasi forma anche minima di privacy e di rispetto della persona), con ricadute così deleterie sull’economia e sulla vita sociale di oltre un miliardo di cittadini, che i più coraggiosi ed esasperati non hanno potuto far altro che scendere in piazza e ribellarsi alle regole.

«Tutto questo deve finire» gridano oggi i cittadini comuni, giovani e anziani indistintamente, che hanno dato via anche a forme di dissenso originali – come il manifestare con striscioni e cartelloni bianchi, senza alcuna scritta – a voler sottolineare quanto pervasiva ed estenuante sia la censura nell’ex Impero Celeste. Sono arrabbiati, delusi e frustrati dall’atteggiamento della leadership di Pechino, che non ha trovato altro rimedio ai contagi da Covid se non quello di «sigillare» direttamente le persone, rinchiudendole in casa secondo una logica di salute pubblica quasi medievale.

La scelta di puntare per anni soltanto sui lockdown e i tamponi di massa, senza provvedere a campagne efficaci di vaccinazioni (peraltro la Cina non dispone di vaccini efficaci come quelli erogati in Occidente) si è rivelata un fallimento totale: moltissima gente non si è ancora vaccinata e la pandemia non accenna ad arrestarsi, con il rischio che milioni di posti letto mancanti diventino la pietra dello scandalo e motivo di critiche ancor più severe al governo, che nel 2020 era sembrato così efficiente nel contenere la pandemia, ma che oggi rivela il vero volto della crisi sanitaria cinese (da cui peraltro tutto ha avuto origine). E non giova certo a rasserenare il clima la lunga serie di arresti di massa delle ultime ore contro i manifestanti.

Insomma, la Cina si trova oggi ad affrontare le conseguenze del più grave dei passi falsi del potere costituito: aver trattato i cittadini alla stregua di cavie da laboratorio, chiudendo milioni di persone in gabbia, e lasciandole senza istruzioni e senza alcuna contezza sul da farsi. Per quanto controllati in maniera orwelliana, era logico dedurne che non avrebbero potuto trattenere per sempre la loro rabbia, da cui le manifestazioni di rabbia che osserviamo in queste settimane.

Ma guai a pensare che si tratti di una protesta politica. Nessuna delle variegate comunità che sono scese in piazza e hanno cominciato a evadere dai lockdown, è interessata a rivendicare diritti civili e a fare richieste prettamente politiche, trasformando cioè queste forme di dissenso in una rivoluzione. I cinesi oggi chiedono solo libertà di movimento, non altro. Nonostante la forza di certi slogan urlati contro il Partito comunista e il suo leader, quello che desidera intimamente il popolo è solo il ripristino della vita normale e della propria dignità.

Anche perché, per quanto l’intera Cina sia sottoposta a un isolamento sociale e virtuale, filtrano dai social le considerazioni che i milioni di cinesi sparsi per il resto del mondo riferiscono ai parenti chiusi nella bolla voluta da Xi. Una domanda su tutti: «Perché siete ancora in lockdown?». Senza contare che tutti quanti possono osservare gli stadi pieni al mondiale del Qatar – dove decine di migliaia di persone assiepate sugli spalti seguono le manifestazioni sportive, ben felici di stare le une appiccicate alle altre – e dunque si comprende bene che qualcosa davvero non torna.

Perché il mondo va avanti e la Cina no? È questa, in definitiva, la più grande delle contraddizioni del regime comunista, incapace di empatizzare o anche solo considerare le esigenze della gente comune, e dunque l’eventualità di cambiare strategia. Anche se questo dovesse significare ammettere di aver compiuto uno sbaglio.

Il problema più grande è proprio questo: il governo non intende fare retromarcia, timoroso che una sconfessione della politica «zero Covid» sin qui impostata possa minarne la credibilità di fronte al mondo in primis, e di fronte ai cittadini poi. Un ragionamento assai poco lungimirante, che non convince più nessuno e rivela semmai l’ottusità di un apparato burocratico sconnesso con la realtà e da sempre in imbarazzo di fronte al dissenso.

Schiavo della propria immagine di condottiero infallibile, è Xi Jinping in prima persona a voler tirare dritto, e a ostinarsi a dire che «con la leadership del Partito comunista cinese e il sostegno del popolo cinese, la nostra battaglia contro il Covid-19 avrà successo». Ma il sostegno del popolo non c’è più, e questo ormai è un dato di fatto. Anche se non lo si vuole ammettere.

Dunque, se oggi la protesta non è in alcun modo politica, tuttavia questo passante storico pone senz’altro le basi per una futura elaborazione di ordine politico circa la condotta tenuta dal Partito comunista cinese nel momento più difficile della storia recente della Cina. E apre alla possibilità di future interpretazioni e formulazioni di un pensiero critico da parte delle élite del Paese, che potrà un giorno farsi sostanza e trovare un sostegno trasversale nella nazione, specie se questa pervicacia avrà conseguenze negative (che già s’intravedono) nella vita economica del Paese.

Anche se quel giorno appare molto lontano, il processo di critica in aperto dissenso col partito è però già iniziata. E ad averla generata è lo stesso Xi Jinping, la cui superbia e tracotanza hanno raggiunto un livello che potremmo definire preoccupante. Quando iniziano a presentarsi le prime sia pur minuscole crepe in una diga, è il segno che prima o poi l’intera struttura potrebbe cedere sotto il peso della negligenza e dell’arroganza del potere.

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