lunedì, 25 Novembre 2024
L’opuscolo anti-stupro della scuola di Cividale del Friuli odora di Medioevo
In principio erano i jeans.
Quelli che per la Corte di Cassazione, nel 1999, la ragazza non avrebbe potuto sfilarsi se non in modo consenziente, perché attillati e perché la violenza si consumò in una utilitaria condotta dal suo istruttore di guida.
Le parlamentari del Popolo delle Libertà si presentarono, per protesta, in blue-jeans a Montecitorio, con cartelli che recitavano: “Jeans, alibi per lo stupro”.
E pazienza se due anni dopo la Suprema Corte tornò sui propri passi sancendo il principio esattamente opposto (anche con i jeans è violenza sessuale), il fatto è che la discussa sentenza precedente non fa altro che affermare un retro-pensiero che moltissimi coltivano in segreto ma solo i più rozzi esplicitano: quello per cui, di riffa o di raffa, quando c’è uno stupro, in un certo qual modo la vittima se l’è cercata.
La sociologia ha persino dato un nome a questa tendenza di normalizzare, o ancora peggio, giustificare lo stupro e altre forme di violenza: si chiama “cultura dello stupro”, dall’inglese rape culture, e include tutti quegli atteggiamenti che minimizzano la violenza sulle donne, colpevolizzando la vittima.
Il ‘pallone d’oro’ di questa tendenza va agli Imam (e, in genere, all’islamismo più retrogrado) che, dopo le molestie di massa a Colonia del Capodanno 2015, attribuirono la responsabilità al ‘profumo’ che le ragazze si erano messe, provocando legittimamente gli istinti ancestrale del virile maschio musulmano. Un po’ come tornare all’età della pietra.
Fuori da questi picchi tribali non ci illudiamo di essere molto migliori, noi in Italia.
Sono molte le sentenze o i provvedimenti di archiviazione che, al pari della scellerata pronuncia della Cassazione citata all’inizio, introducono una sorta di responsabilità secondaria della vittima (più banalmente il ‘se l’è chiamata’).
Forse non tutti sanno che il 27 maggio 2021 proprio l’Italia è stata condannata dalla Corte europea dei diritti umani per violazione dell’art. 8 della CEDU (diritto al rispetto della vita privata e familiare), non avendo tutelato l’immagine, la privacy e la dignità di una giovane donna che aveva denunciato di essere stata violentata da sette uomini: nella sentenza con cui sono stati definitivamente assolti tutti gli imputati, è stato infatti utilizzato, a parere dei Giudici della Corte EDU, un “linguaggio colpevolizzante e moraleggiante che scoraggia la fiducia delle vittime nel sistema giudiziario” per la “vittimizzazione secondaria cui le espone”.
Arrivando ai giorni nostri ha fatto scalpore l’opuscolo che il Comune di Cividale del Friuli ha diramato nelle scuole secondarie, una sorta di vademecum per le ragazze che vengono invitate a “non fare sorrisi ironici o provocatori a sconosciuti” o “indossare oggetti di valore”, ricordando che “l’aggressore osserva e seleziona le vittime anche sulla base di alcuni particolari come gioielli e l’abbigliamento eccessivamente elegante o vistoso”.
Certo non si può dire che non siano saggi consigli basici più consoni a genitori attenti, ma il problema è un altro.
Che bisogno c’era da parte della scuola – con il pretesto di combattere la violenza di genere – di diramare il vademecum rivolto solo alle ragazze che, di fatto, riporta sempre allo stesso punto, quello per cui una parte della colpa della violenza fa capo anche alla vittima.
Il vademecum scolastico, mi chiedo, non avrebbe dovuto dare consigli anche ai “maschietti”? Tipo: “Se una ragazza ti sorride non vuol dire che vuole fare sesso con te” o “ se una ragazza porta gioielli vistosi o abiti succinti, lo fa perché le piace e non perché vuole fare sesso con te”.
Già, perché che indossi jeans fascianti o shorts, che sia truccata o al naturale, che porti gioielli o braccialetti di corda, che sprigioni profumo o meno, che giri da sola o in compagnia, di giorno o dopo il crepuscolo, tu “maschio” non puoi interpretare la faccenda come un invito a nozze per fare sesso senza consenso.
Se anche in questo 2023, dopo decenni di progressi verso la parità di genere e di diritti, con una premier donna sugli scranni più alti del Parlamento, in una società che si illude di essere finalmente allineata a quelle più evolute dell’occidente siamo ancora qui a suggerire alle ragazze di non flirtare troppo o vestirsi in modo vistoso, allora forse è meglio far cadere definitivamente la maschera dell’ipocrisia e legiferare la depenalizzazione della violenza sessuale.
Almeno si evita la doppia umiliazione della vittima per essere pure pubblicamente accusata di aver istigato il carnefice.
Forse, vale la pena di riflettere ancora un bel po’ sull’argomento.