Dopo 40 anni, Re per una notte non ha perso nulla della sua potenza

Re per una notte compie 40 anni, lo fa elevandosi in virtù di una grandezza ed iconicità pacifiche, palesi, non solo e non tanto nella sua raffinatezza di opera di uno dei registi più grandi di tutti i tempi, ma soprattutto per tutto ciò che ha saputo dirci sulla nostra società.

L’America degli anni ’80, dello yuppismo e del reaganismo, della televisione e della fama accessibili, diventavano un mezzo attraverso cui Scorsese parlava anche del cinema, dell’artista in particolare, del deterioramento progressivo della sua iconicità. Incompreso all’epoca dal pubblico, forse perché troppo diretto nella sua accusa, questo capolavoro è diventato una colonna portante di quel cinema capace di parlarci della verità senza mezzi termini.

La genesi complicata di un film profetico

Parlare di Re per una notte di Martin Scorsese, significa confrontarsi con un film in grado di ergersi a simbolo non solo e non tanto della sua contemporaneità di quegli anni ’80 arrivisti e materialistici, ma soprattutto di gettare una luce tanto inquietante quanto veritiera sul futuro, il nostro futuro.
Martin Scorsese era inizialmente ben poco convinto della sceneggiatura fatta da Zimmerman, era del resto tutto preso da Toro scatenato e dalla complicata gestazione de L’Ultima Tentazione di Cristo, dal suo ruolo di simbolo di ciò che rimaneva della New Hollywood all’ora ormai in profonda crisi.

Fu Robert De Niro ad innamorarsi totalmente di Rupert Pupkin, comico fallito, disturbato, afflitto da manie di persecuzione, narcisismo patologico e un totale distacco dalla realtà, innamorato perdutamente non tanto e non solo di quel Jerry Langford che Jerry Lewis illuminò con una luce malinconica, ma soprattutto dall’attenzione degli altri. Re per una notte alla fin fine tornò nelle mani di Scorsese dopo essere caduto da quelle di Cimino, reduce da quel fiasco de I Cancelli del Cielo. Gli piacque di più, ne colse le sfumature sociali profonde, la critica culturale e antropologica, forse anche perché alle prese con un momento particolarmente difficile della sua vita e della sua carriera. Tu guarda le coincidenze della vita e dell’arte, concepì un film che di fatto, completava quella visione che Taxi Driver aveva reso patrimonio comune.

Re per una notte non ebbe l’impatto presso il botteghino dell’epopea di Travis Bickle, ma aveva molto in comune, per quanto ammantato da un’atmosfera grottesca, a metà tra tragedia e commedia, lente d’ingrandimento sull’individualismo sfrenato e il mito del successo ad ogni costo. Di fatto questo film è stato la base di ragionamenti cinematografici che poi si sono ripresentati nei decenni a venire.

Un film ancora oggi attualissimo

Re per una notte volava sulle ali di un protagonista a cui Robert De Niro seppe dare non solo una disperazione palpitante, ma anche illuminarlo di una luce tanto oscura, negativa, quanto in fin dei conti anche foriera di un’essenza vittimistica che ancora oggi lascia stupefatti.

Essenziale e molto naturalistico nella regia, è un’odissea quasi psichedelica di un uomo incapace di concepire la realtà come qualcosa di diverso dalla sua mente che di fatto diventa anche una metafora di ciò che Andy Warhol proprio in quegli anni aveva profetizzato: i famosi 15 minuti di gloria garantiti ad ognuno nella società moderna. Pupkin però non vuole 15 minuti, vuole l’eternità, vuole la conferma di essere quel genio comico che è sicuro di essere, a dispetto delle marchiane prove che attestano esattamente il contrario. Alla sua ambizione sfrenata, patologica, alla volontà di avere quello show solo per lui in diretta televisiva, per quel monologo preparato da una vita, il film unisce la sua totale incapacità di guardare alla realtà, ma soprattutto Langford. Perché ciò che De Niro rappresenta, il giovane artista determinatissimo che vuole avere il pubblico più grande di fronte a sé, è completato dal veterano della fama che ha capito che tutto è una recita, nulla è vero, ma soprattutto che l’amore del pubblico non può sopperire alla sua solitudine, alla sua straordinaria sensazione di sconfitta. Sente di aver sprecato la propria esistenza dietro qualcosa di effimero. Martin Scorsese tutto questo lo fece arrivare in modo graduale e perfetto, mentre godevamo delle bugie con cui Pupkin si vendeva come l’uomo perfetto, il rapimento rabbioso di Langford, quella trasmissione che lo guiderà infine verso una visibilità da cui uscirà vincitore.

Una straordinaria critica sociale e culturale

La fama, la visibilità, sono questi i veri centri semantici della nostra società, e saperlo ci fa sentire tremendamente colpevoli e rappresentati, nella nostra vanità di andare al di sopra delle nostre possibilità, di quella mediocrità che ci assedia. Oggi, guardando la civiltà completamente egoriferita in cui ci troviamo, con Sanremo e la gara a chi ha più followers su Instagram, con la notizia che fa notizia in quanto semplice evento e non perché portatore di significati, bisogna ammettere una cosa: Re per una notte ha previsto tutto quello che ci sarebbe successo nei decenni a venire. All’epoca la televisione cambiava profondamente, gli show diventavano non più tempio per l’eccellenza, grandi artisti, ma la commercialità che trasformava mediocre persone comuni, sovente dozzinali, ad accarezzare il frutto proibito.

Trent’anni dopo avremmo celebrato il tutto nei reality show, nel Grande Fratello, di cui questo film bene o male è stato un anticipo. Il folle Pupkin uscirà dal carcere, la sua biografia, quella a tutti gli effetti di un mitomane criminale, andrà a ruba, l’uomo comune si rivedrà in lui, nei suoi desideri inconfessabili, nel sogno di qualcosa di prezioso scevro dal talento che gli manca. Mediocrità che regna e risplende feroce, la vittoria della nullità: ecco un dato di fatto con cui dobbiamo convivere, con influencer, gente famosa per caso, lo stesso cinema, la stessa televisione, che diventano terra di conquista per chi che non sa fare nulla, ma lo sa fare molto bene. Joker, the Truman Show, Mad City, un Giorno di Ordinaria Follia, tutti loro a questo capolavoro devono tanto, tantissimo. 40 anni fa Scorsese ci fece capire quanto i media avrebbero cambiato non solo e non tanto la nostra società, ma come noi avremmo visto noi stessi all’interno di essa. Soprattutto per questo è impossibile non rimanere affascinati dalla potenza profetica, dall’inquietante verità che quel film ancora oggi porta con sé.

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