Point Break, i trent’anni del film di Kathryn Bigelow

Point Break

Un altro superclassico dei primi anni 90, visto e rivisto in TV un milione di volte, ha superato la boa dei trent’anni: il 12 luglio del 1991 usciva nelle sale americane Point Break di Kathryn Bigelow. Da noi, come usava ai tempi, per vederlo al cinema si sarebbe dovuto aspettare l’autunno: il 15 novembre, con il titolo allungato da un’appendice con la traduzione in italiano, Point Break – Punto di rottura. Un film divertente ed esagerato, l’avventura dei nemici-amici Bodhi e Johnny, Patrick Swayze e Keanu Reeves, che però nasceva in realtà sulle ceneri di una versione precedente, mai andata in porto. O, se vogliamo, sbalzata via dalla tavola troppo presto, dalle onde altissime della pre-produzione. Un Point Break diretto da Ridley Scott.

IL PRIMO PUNTO DI ROTTURA SI È ROTTO

La storia di Point Break ha inizio nella seconda metà degli anni 80. Il copione scritto da W. Peter Iliff (Giochi di Potere, Varsity Blues) dovrebbe diventare un film di Ridley Scott, appunto, con Matthew Broderick nei panni dell’agente dell’FBI sotto copertura Johnny Utah (ma per il ruolo girano anche i nomi di tanti altri colleghi) e Charlie Sheen in quelli del vecchio guru e capobanda Bodhi. Iliff viene coinvolto dal regista Rich King, che ha buttato giù il soggetto e gli offre solo seimila dollari per il lavoro. Iliff porta a termine lo script mentre lavora di giorno come cameriere, per pagarsi l’affitto. Ma come succede a tanti progetti hollywoodiani, non se ne fa niente.

Quattro anni dopo, lo script di Iliff finisce nelle mani di James Cameron, che di Point Break diventerà il produttore esecutivo. Dietro la macchina da presa, invece, la moglie di Cameron all’epoca, Kathryn Bigelow, regista californiana alla sua quarta pellicola, la prima su commissione, per così dire, non co-sceneggiata da lei. Bigelow è reduce da Il buio si avvicina (Near Dark, 1987) e soprattutto Blue Steel – Bersaglio mortale (Blue Steel, 1990), con Jamie Lee Curtis; è una tosta, e lo avrebbe dimostrato negli anni a venire, con un film bellissimo come Strange Days e con varie altre pellicole di livello. Con una delle quali – The Hurt Locker, 2009 – sarebbe stata pure la prima regista donna a vincere un Oscar.

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LE AVVENTURE DI JOHNNY UTAH

Keanu Reeves è uno dei primi attori ad essere tirati a bordo per questa nuova incarnazione del progetto, e la sua figura è talmente centrale nella storia che si pensa anche di intitolare il film come il suo personaggio: “Johnny Utah”. Poi emerge anche quella di Bodhi, al cast si unisce un altro attore di peso come Patrick Swayze, e allora il working title diventa “Riders on the Storm”. Oliver Stone deve girare quel film sui Doors, no? Solo tempo dopo, a riprese già in corso, si sceglie il titolo definitivo, che viene dal gergo dei surfisti: il “point break” è, appunto, il punto in cui un’onda si rompe contro uno scoglio, generando una situazione ideale per i surfisti. O qualcosa del genere. Fatto sta che il titolo si prestava a un gioco di parole interessante, indicando al contempo uno spot figo per un surfista e il “punto di rottura” di chi si trova a fare amicizia con il capo della banda di rapinatori (travestiti da ex presidenti) a cui starebbe dando la caccia. Swayze e Reeves avevano già lavorato insieme, nel primo film di Keanu, Youngblood (1986). Si parlava di sport anche lì, ma era hockey su ghiaccio.

Poco prima dell’avvio delle riprese, però, si presenta un problema, e non da poco conto. Patrick Swayze era salito su un surf giusto un paio di volte in vita sua, Keanu Reeves mai. Lori Petty, che nel film è l’esperta domatrice di onde Tyler Ann Endicott, non aveva mai neanche bagnato i piedi in un oceano. Era la prima volta che ne vedeva uno.

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A SCUOLA DI SURF

Non il massimo, se devi girare un film in cui il surf è così presente. Non a caso, tredici anni prima, per Un mercoledì da leoni, John Milius aveva praticato una scelta diametralmente opposta, scegliendo per il suo film attori come Jan-Michael Vincent, William Katt e Gary Busey, che su una tavola sapevano fare il loro. Ma Milius era un surfista, e quella era in gran parte una pellicola autobiografica.

La produzione di Point Break si affida invece a un surfista professionista per un corso accelerato alle Hawaii per i tre protagonisti. Cosa sarà mai potuto andare storto? Mah, niente di che, se ESCLUDIAMO le quattro costole che il povero Swayze si è rotto durante le riprese. Il compianto protagonista di storie d’amore ultraterrene, l’uomo che ha spiegato a generazioni di spettatori che nessuno mette Baby in un angolo, qui era ispiratissimo. L’energia che il suo personaggio, Bodhi, comunica nel film, è quella che Patrick mette nelle riprese, giorno dopo giorno. Rifiutando uno stuntman per molte delle scene sulla tavola e dei lanci col paracadute. Reeves, invece, con quella storia del surf ci prende gusto, e scoprirà di trovarsi a suo agio tra le onde. Tra i surfisti c’è anche un altro tizio molto famoso: Tone, quello che si spara su un piede all’arrivo della polizia, è Anthony Kiedis, che prima della nascita dei Red Hot Chili Peppers aveva già recitato in diverse serie TV.

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SFIDA IN FAMIGLIA

Point Break esce nei cinema USA, dicevamo, il 12 luglio del ’91. La sfida che lo attende è un’onda altissima, perché giusto una settimana prima ha debuttato quel certo filmettino dell’allora marito di Kathryn Bigelow, Terminator 2 di Cameron. Point Break è quarto per incassi nel primo weekend, dietro T2, la riproposta disneyana de La carica dei 101 (il classico animato del ’61) e Boyz n the Hood – Strade violente di John Singleton. Alla fine incasserà 83 milioni di dollari, a fronte di un budget di 24. La critica ne apprezza alcuni aspetti, meno altri, ma Point Break diventa negli anni un film di culto. Citato ovunque, da Fast and Furious (il primo era in pratica un remake sotto copertura) alla banda degli ex presidenti… della Repubblica in Tre uomini e una gamba. Da Hot Fuzz al primo Avengers, in cui Tony Stark chiama Thor “Point Break”, per i capelli biondi lunghi come quelli di Swayze. La gag verrà ripresa in Thor: Ragnarok, in cui il codice vocale per attivare il Quinjet è sempre “Point Break” (“Damn you, Stark…”).

Qualcuno potrebbe anche dirvi che nel 2015 ne hanno fatto un remake, un nuovo Point Break diretto da Ericson Core (già direttore della fotografia, pensa, di Fast and Furious). Ma non è vero. Non è mai esistito nulla del genere, e chi sostiene il contrario è una persona malvagia.

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L’ULTIMA ONDA

A rivederlo oggi, Point Break, il punto di rottura è soprattutto quello che la credibilità del tutto sembra raggiungere più volte, durante le sue due orette di metraggio. Ci sono alcune scene, come quella della sparatoria in cui schiatta metà della banda di Bodhi e il collega di Johnny, l’agente Angelo Pappas (rieccolo, Gary Busey), che sembrano materiale da fiction in termini di interpretazione dei soggetti coinvolti. Eppure è un film bellissimo, Point Break. Lo era, lo resta.

Visivamente notevolissimo, con un villain che non si può che adorare, con tutta questa storia di bromance che in realtà è una filosofia di vita spiccia e funzionale: l’adrenalina, l’azione come unica risposta a tutto. La visceralità di una teoria di sequenze d’azione tiratissime, e chi se ne frega di starci a pensare su, se sono un po’ mimme, se non tutto fila: in quell’autunno del ’91 sono uscito dal cinema con uno strano cocktail di esaltazione e malinconia in andirivieni libero tra petto e testa. Un’amica mi disse che secondo lei Bodhi non era davvero morto, che era sopravvissuto a quell’onda che ti capita “una volta sola nella vita”.

Col passare del tempo, ho finito per convincermi che è andata davvero così. È a questo che servono i finali aperti, no? Anche a riplasmarteli nella testa, quando gli anni passano. “Ciao Johnny, ci vediamo in un’altra vita”.

 

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