domenica, 24 Novembre 2024
Incidente di Guidonia, la verità che non vogliamo vedere
Ciò che è accaduto ieri nel cielo di Guidonia Montecelio è una tragedia sulla quale sarebbe opportuno pubblicare articoli in punta di polpastrello, senza farsi prendere dalla necessità di riempire righe di cronaca con le supposizioni. Abbiamo sentito cercare di mettere in bocca a un generale (e che generale, Frigerio!) frasi inopportune su presunte manovre per evitare case e altre teorie. La verità è che probabilmente non lo sapremo mai ed è così che forse dovrebbe essere. Resta un mistero perché in questo Paese bisogna sempre aver bisogno di eroi. Forse perché pensare che un pilota possa fino all’ultimo aver salvato qualcun altro rende meno penosa o inutile la fine della sua vita, o più accettabile qualcosa che i pacifisti detestano, ma è un’illusione. I due ufficiali scomparsi ieri non hanno bisogno di eroismi, erano unici, persone meravigliose, come tale resta il ricordo che tutti i conoscenti hanno di loro anche se non sanno cosa stessero provando in quegli ultimi istanti. Resta un fatto: la verità non la vogliamo vedere.
Ieri quattro piloti stavano lavorando, si stavano allenando e qualcosa è andato storto. Vai a sapere se un errore di manovra, se un’avaria improvvisa, un volatile che sfonda il vetro o che cosa. Sappiamo però che nel volo in formazione, anche con un monomotore, i tempi di reazione per mantenere la posizione sono immediati. Restare in posizione rispetto a un altro aeroplano richiede un continuo lavoro di micro-correzioni sulla potenza del motore e sui comandi che no, non si improvvisa né, una volta imparato, rimane per sempre. Bisogna continuare ad allenarsi. Il volo in formazione è una peculiarità tra le capacità dei piloti militari. Pertanto, l’addestramento a questa forma di volo è necessario per mantenere le abilitàdegli equipaggi. E nella scelta di fare il pilota per professione si accetta la possibilità di dover fare fronte ai rischi del mestiere. Questa volta, nella grande tragedia è andata anche bene, la buona sorte e il fatto che le manovre venivano eseguite sul cielo campo – tecnicamente lo spazio aereo sopra l’aeroporto e le sue immediate vicinanze – ha contenuto possibili danni collaterali.
Si è letto di piccoli aerei d’epoca, ma non è così: un aeromobile del quale il costruttore esiste ancora (Sia i Marchetti era confluita in Aermacchi, quindi Alenia Aermacchi, quindi Finmeccanica e poi Leonardo), certificato anche come aeroplano civile dall’Agenzia europea per la Sicurezza del volo, e che viene manutenuto bene come gli U-208A del 60°Stormo di Guidonia non è mai “vecchio”. Non sono aeromobili usati per “vetrina” ma svolgono compiti di collegamento, addestramento, esercitazioni, traino alianti militari, voli di ambientamento nei corsi di cultura aeronautica che l’Arma Azzurra organizza in tutto il Paese. Tradotto in emozioni reali significa che generazioni di piloti hanno avuto su quegli aeroplani il loro primo contatto con l’Aeronautica Militare e che alcuni di loro ne hanno fatto parte e oggi operano al servizio del Paese. Ma il fatto che per la maggioranza della nostra stampa tutto ciò che non è un Boeing sia automaticamente un ultraleggero la dice lunga proprio sulla limitatezza della cultura aeronautica in Italia.
Invece oggi non c’è gruppo social di appassionati, proprio quei luoghi dove l’informazione raccoglie il peggio, che non si stringa alle famiglie di Giuseppe e Marco. Non conta più il loro grado e neppure cosa ognuno dei commentatori pensa dell’accaduto. Si condivide il dolore ancora una volta, consci che in aviazione non è la prima e non sarà l’ultima. Anche se non sappiamo ancora che cosa sia effettivamente capitato ieri, se uno dei velivoli abbia “schiacciato” l’altro che stava sotto, o se l’ha urtato dal fianco, quali i danni subiti dal mezzo e forse anche dai piloti prima del doppio schianto. Ma che importa? Se è stata colpita la coda dell’aereo la possibilità di governare non esiste più e stante la quota relativamente bassa, dopo qualche secondo che sta in una mano tutto era già finito. Proprio l’immagine della coda di uno dei due aeroplani sul prato, senza una strisciata di erba schiacciata dice che è caduto praticamente in verticale. Dell’altro i rottami si confondono con quelli dell’auto andata in fiamme e ci vorrà tempo per analizzare e capire. A questo servono le inchieste tecniche, non ad attribuire le colpe, non a cercare gli eroi, ma a spiegare innanzi tutto perché, maledizione, piangiamo la vita di due persone. E soprattutto le inchieste servono perché quanto impariamo ogni volta dal dolore faccia in modo che capiti ancora meno frequentemente.
C’è una consapevolezza che gli aviatori hanno: l’aviazione è fatta di regole e queste sono state scritte dopo i morti durante una storia recente, meno di 120 anni, nulla in confronto con i millenni della marineria e i secoli delle ferrovie. Eppure, anche in quei settori si muore ancora. La fregatura è che ogni generazione di aviatori, marinai, ferrovieri e autisti in fatto di esperienza riparte da zero, la matura con il tempo e poi la deve ricordare e sfruttare, trasmettere se è istruttore, come fa un professionista quando affronta ogni volo ponendosi sempre le domande sulle possibili criticità della missione che sta per iniziare e come mitigare i rischi a terra in volo. Non c’è mai alcuna leggerezza, non c’è mai alcuna azione che in aeroplano si faccia senza pensare. Non lo fai con le 6.000 ore di volo di Giuseppe, neppure con le 2.600 di Marco, non l’avevano i colleghi in volo con loro e quelli a terra che sono corsi sul posto e che hanno visto ciò che mai avrebbero voluto. E che non scordi mai più. Cieli blu, diciamo in aviazione, che la terra sia loro lieve.