Fosse Ardeatine: Enzo Biagi intervista il colonnello Herbert Kappler

Da Panorama del 23.05.1996 – di Enzo Biagi

Quanto è monotona e ripetitiva la vita. Anche in Francia c’è polemica sulla giustizia, si discute di magistrati conservatori e rossi, e sempre con l’accusa di parzialità. E in Italia, dopo Berlusconi, anche Romiti si sente vittima di una persecuzione. C’è un altro potere in alternativa a quello politico? Un tribunale internazionale sta processando “Dusko” Tadic, serbo di Bosnia, già proprietario di un bar e istruttore di karate: è accusato dell’assassinio di 13 musulmani e di averne seviziati una trentina. In nome della “pulizia etnica”.

La televisione sta trasmettendo qualche momento delle udienze che vedono sul banco degli imputati il capitano delle Ss Erich Priebke: un vecchio che segue con apparente distacco quello che accade attorno a lui. Mezzo secolo lo divide e lo allontana da quei fatti: forse hanno davanti un altro uomo. C’è chi lo difende, ha obbedito, e non poteva farne a meno. “Disziplin” era la tradizionale regola dell’esercito tedesco, nel quale valeva anche il principio di Svejk, il buffo personaggio inventato da Hasek, che diceva: “Il buon soldato non deve pensare, per lui pensa il superiore”. Il superiore del capitano Priebke era il colonnello Herbert Kappler: lo incontrai nel penitenziario di Gaeta. Rappresentava con il maggiore Reder, quello di Marzabotto, uno degli ultimi “criminali di guerra”. Sulle pareti del corpo di guardia erano dipinte ingenue immagini di battaglie, aerei che andavano all’assalto, e un motto che era un programma e un invito: “Vigilando redimere”. Mi disse subito: “Non mi chiami colonnello, mi chiami Kappler” come se volesse allontanarsi dal passato. “Non desidero discutere certi fatti”.

Alle Fosse Ardeatine furono fucilati per rappresaglia 335 ostaggi. In un attentato in via Rasella erano caduti 33 soldati tedeschi. Per errore ci furono cinque vittime in più del rapporto prestabilito: dieci per uno. Disse: “Mi ritengo corresponsabile da un punto di vista religioso e morale, e per questo non mi sono mai ribellato, ma non colpevole. Mi spiego: considerarmi l’unico reo di quella tragedia non mi sembra giusto. Sì, c’ero anch’io, ma non ho dato il via, non ho creato la circostanza. Ho eseguito, ed era durissimo. Le sarei grato se non volesse approfondire”.

Poi, anche in un decrepito carcere, che trasuda muffa, odore di rancio, di sudore, di salsedine, e fuori anche il mare è sporco, si stabiliscono tra uomini rapporti che aiutano la confidenza. Il poliziotto Kappler sentiva il bisogno di liberarsi dei fantasmi e dei ricordi. Gli chiesi se aveva mai fatto ricorso alla violenza. “Io, mi creda signor Biagi” disse “non ho seviziato nessuno, solo una volta ho dato a un detenuto due schiaffi, non ricordo il suo nome, e poi mi sono scusato. Fu un momento di eccitazione, persi il controllo. Se qualcuno dei miei lo ha fatto è andato contro i miei ordini”.

Mentiva, credo. Aveva il suo comando al numero 55 di via Tasso: c’era una stanza per l’interrogatorio di coloro che dovevano parlare a ogni costo. Più tardi sentii un francese, il generale Massu, cattolico praticante, che mi spiegò l’utilità delle sevizie come mezzo per indurre i presunti terroristi a parlare. Lo aveva praticato con successo ad Algeri.

Secondo la descrizione di un detenuto, il locale era dotato di “catenelle di ogni grossezza, uncini, mazzuoli e martelli, fruste, bottiglie contenenti corrosivi, corde metalliche, punteruoli di varie dimensioni, poi una specie di branda di ferro sulla quale venivano legati gli arrestati”. “Tutto ciò è inventato” mi disse Kappler.

Gli chiesi come era diventato nazista: “A 17 anni presi la licenza liceale. La socialdemocrazia era al governo, potevo scegliere tra due possibili opposizioni: o coi comunisti o col nazismo. Lei sa dove andai”.

Di quel giorno, il 23 marzo 1944, un giovedì di primavera, le camicie nere di Salò festeggiavano il XXV annale della fondazione dei fasci, gli alleati attaccavano senza risultati Cassino, a Milano, al Lirico, che sostituiva la Scala, davano il Boris, era in programmazione un film con Rabagliati e Tito Schipa: In cerca di felicità, sul Corriere risaltava la foto di un motociclista tedesco, tra le rovine e il fango di Nettuno, di quel giorno, dicevo, Kappler non voleva parlare. Kesselring, il feldmaresciallo, aveva dichiarato: “Se c’è un colpevole dell’eccidio quello sono io”. Ai giudici il colonnello raccontò che, dopo l’attentato, il generale Mältzer gli disse di preparare l’elenco di quelli che dovevano essere fucilati. Kappler andò dal questore di Roma, Pietro Caruso, perché gli mettesse a disposizione gli archivi. Ricevette una telefonata: “Per ogni soldato ucciso dieci italiani”. Chiamò il quartier generale di Kesselring al Soratte e parlò con l’ufficiale di servizio per sapere da dove arrivava quell’ingiunzione: “E’ partita da molto in alto” fu la risposta. Organizzò con minuzia e con tecnica perfetta l’esecuzione.

Il resoconto è a verbale: “Ordinai che ognuno sparasse un solo colpo. Precisai che il proiettile doveva raggiungere il cervelletto della vittima, e che le canne delle armi non dovevano essere appoggiate alla nuca. L’ idea di fare compiere l’ operazione in una caverna fu mia. Pensai di creare così una specie di grande camera mortuaria naturale. Non potevo concedere più di un minuto per ciascuno. I prigionieri scendevano dai camion e, man mano che arrivavano, un ufficiale, Priebke, cancellava i nomi dalle liste che aveva sott’occhio. Quando tutto fu finito era caduta la notte. I miei dipendenti apparivano abbattuti e a un certo momento tirai fuori una bottiglia di cognac per rianimarli”. Uno solo rifiutò di sparare: Kappler lo ricordava come “un certo Wayten”. Basta anche un giusto per salvare la dignità umana.

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