Salute mentale: l’Italia è all’ultimo posto in classifica

Alla faccia del Belpaese. L’ultima analisi della salute mentale e il benessere rilasciata dal Gruppo AXA all’inizio del 2023 e che ha preso in considerazione diversi paesi, è sorto un dato sconcertante: l’Italia è ultima. L’indagine, condotta su un campione di 30.600 persone di età compresa tra i 18 e i 74 anni in ben 16 Paesi, ha rivelato infatti che l’Italia è in fondo alla classifica dopo Francia, Regno Unito, Germania, Spagna, Irlanda, Belgio, Svizzera, Stati Uniti, Messico, Turchia, Cina, Hong Kong, Giappone, Thailandia e Filippine. L’ennesima indagine che dimostra come il covid abbia avuto un forte impatto negativo sulla nostra società. L’Italia, che agli occhi di tutti viene considerata come “il bel paese” ha subìto dei colpi esorbitanti nel campo psicologico.

Più della metà degli italiani si rivolge a medici e specialisti del settore. Un dato in continua crescita che dimostra come siamo sempre più propensi a prenderci cura della nostra salute mentale. Solo il 18% in Italia infatti dichiara uno stato di benessere mentre ancora meno quelli che confermano di trovarsi in uno stato mentale produttivo. Come noi solo i giapponesi. Ed è proprio in Giappone che è nato il fenomeno degli Hikikomori; persone che decidono di vivere completamente distaccate dalla realtà che li circonda a causa di una pesantissima pressione socio culturale.

«Il tema psicologico non è solo un tema di patologia si o no.», spiega il presidente del Cnop (Consiglio Nazionale Ordine Psicologi) David Lazzari. «C’è un legame forte tra malessere psicologico, capitale umano e salute. Se non si agisce prima che il malessere diventi malattia non saremo sostenibili ed efficaci. Oggi prima della malattia e della possibilità di rivolgersi al servizio di salute mentale (psichiatrico) c’è il vuoto nei servizi pubblici (scuola, assistenza di base, ospedali, servizi sociali e di comunità non hanno psicologi). Quindi niente prevenzione, promozione, intercettazione precoce. Il vuoto tra disagio e malattia. Dal nulla alla psichiatria. Oppure lo psicologo privato per chi può permetterselo: così ancora l’Italia. E così siamo ultimi».

E’ vero ciò che emerge dalla ricerca di Axa?

«Sì. Axa ha avuto l’intelligenza (come molti stanno facendo nelle organizzazioni) di non fare un’indagine per vedere se le persone hanno o non hanno un disturbo. Se dovessi leggere sul giornale che il 10% degli italiani ha un disturbo depressivo, inevitabilmente capisco che il 90% sta bene. Se riduciamo il tema a “Malato” e “Non malato” lo banalizziamo perché il tema è un pochino più articolato. E va capita l’importanza della prevenzione, che è fondamentale. Axa ha fatto un’indagine più articolata, sono andati a vedere i livelli di malessere e di benessere. Ad esempio se andiamo a prendere una persona sedentaria che non fa attività fisica (e quindi non ha un fisico efficiente), una che fa un minimo di attività fisica, una che va in palestra quotidianamente e un’atleta. Se faccio una gradazione tra la sedentaria e l’atleta ho un quadro molto più articolato. Axa ha graduato i livelli di benessere, quindi è andato a prendere quello che sta meglio nella vita (ha energia e riesce a esprimersi al meglio) e la persona che languisce. Una persona che languisce non sta bene, è una situazione a rischio. Quindi ciò che si compromette è il capitale umano, il tuo potenziale e anche il potenziale del Paese stesso. Quanti italiani fanno attività fisica? Qual è il potenziale degli italiani? Quanti atleti possiamo mettere in campo? Bisogna fare prevenzione e garantire alle persone di poter fare attività fisica in qualsiasi fascia di età».

Come mai in Italia c’è questo grande malessere generale?

«In Italia funziona che io mi devo ammalare, devo avere un disturbo grave per essere notato, per cui a quel punto vado al servizio psichiatrico dell’Ans e lì vengo curato. Ma tra il disturbo conclamato e il malessere non c’è nulla, c’è il vuoto. Quindi non c’è prevenzione, promozione ed intercettazione precoce. Non c’è la possibilità di intervenire prima.Teniamo presente che il lavoro privato impedisce la prevenzione. Perché i servizi di salute mentale in Italia sono servizi di psichiatria quindi insistono sempre in questo aspetto che è la fine del tema. I farmaci dovrebbero essere l’ultima fermata, e non il percorso. Non sto dicendo che i servizi di cura non servono. Assolutamente servono. Servono sia gli psichiatri sia gli psicologi. Ma se non si interviene nella prevenzione allora si incappa nella malattia vera e propria. Noi ragioniamo ancora in bianco e nero in modalità molto limitate e molto povere che non vanno bene nella maggioranza delle situazioni e rischiano di dare al paese questa situazione di vuoto. Tra il malessere e la malattia c’è il vuoto».

Come si può fare prevenzione?

«Partendo dalle scuole. La scuola è il punto fondamentale. Ogni intervento fatto lì ha delle ricadute enormi perché lavori su soggetti in costruzione, quindi lì veramente puoi potenziare le risorse di questi ragazzi e dargli degli strumenti utili. Si chiama Empowerment: “potenziamento delle risorse”, ossia: aiutare le persone a prendere in mano la loro capacità di fronteggiamento dei problemi della vita ed essere più resilienti. E’ a scuola che si apprendono queste cose e agire lì ha un valore aggiunto. Nei punti dove vorremmo fare investimenti con un grandissimo valore aggiunto in termini di prevenzione non lo facciamo. Questo spiega perché questo malessere non viene intercettato da nessuna parte. E’ come se avessimo una rete con le maglie talmente grandi da riuscire a prendere solo i pesci grossi».

Secondo Axa, le donne risultano maggiormente colpite, è vero?

«Le donne sono più colpite perché tendono a dover gestire più cose insieme, tra la famiglia e il lavoro. Poi si è sempre visto che a differenza degli uomini, le donne sono più portate all’introspezione e alla riflessione. Questo crea un livello di consapevolezza maggiore e quindi i problemi sono maggiormente indirizzati sulla dimensione psicologica. Gli uomini sono più portati a portarli sulla dimensione fisica».

Quindi gli uomini si affidano meno agli psicologi?

«In realtà su questo c’è stato un grande avvicinamento. Fino a venti, trent’anni fa, l’80% di pazienti e psicologi erano donne. Oggi si equivalgono quasi a pari merito. Quindi da un certo punto di vista da parte degli uomini c’è stata una presa di consapevolezza».

Cos’è cambiato dopo la pandemia?

«La pandemia ha amplificato il disagio e ha reso le persone più consapevoli, quindi in 2 o 3 anni c’è stato un salto in questo senso, come se ne fossero passati 10 in un batter d’occhio. E come ne siamo usciti? Soprattutto attraverso la prevenzione. Cioè prendendo delle misure che hanno impedito al virus di circolare. Se avessimo fatto solo cura, avremmo avuto un numero di persone che si ammalavano che diventava assolutamente impossibile da gestire. Questo è il rischio, la grande miopia che sta avvenendo rispetto al tema del malessere e benessere psicologico. Cioè il fatto che a differenza di altri Paesi Occidentali, l’Italia purtroppo ha questo grande vuoto. Degli psicologi italiani solo il 5% lavora nel pubblico, il restante 95% lavora nel privato. Quindi significa che l’Italia non ha un uso pubblico della psicologia. In questo paese se vuoi uno psicologo che ti segua oltre una manciata di sedute, te lo paghi».

C’è la speranza di una guarigione?

«Questa è la battaglia. I giovani oggi hanno preso consapevolezza al diritto al benessere psicologico e non solo alla cura della malattia. E quindi chiedono attenzione. Fino a ieri c’era vergogna e nessuna rivendicava niente. Oggi gli studenti anche nelle scuole superiori hanno espressamente richiesto degli psicologi. Chiedono psicologi non per essere curati ma per essere aiutati. Noi non siamo psichiatri, siamo psicologi e quindi siamo orientati a promuovere lo sviluppo. Poi, quando serve, anche a curare, ma il primo ruolo è proprio questo: quello di favorire la promozione degli strumenti».

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