lunedì, 25 Novembre 2024
Risolta la questione Cina, ora il Paese rischia il freno dei No-5g
Dopo i no-vax il nostro Paese deve anche fronteggiare i no-5G che come i primi sono molto più organizzati e annidati nei partiti e nelle istituzioni di quanto si possa immaginare. Ma andiamo con ordine poiché ad una infrastruttura complessa corrispondono problemi complessi. Il 5G è una tecnologia fondamentale per il futuro industriale e delle telecomunicazioni del Paese. A pieno regime dovrebbe permettere un livello di automazione e di velocità nel trasferimento dati molto superiore a quello attuale. L’infrastruttura è sempre stata considerata critica, tanto che sulla costruzione della stessa si è polarizzato lo scontro tra Cina e Stati Uniti. Un attrito che ha coinvolto i Paesi europei, in particolare quelli dove la classe politica è maggiormente spaccata tra sinofili e atlantisti come l’Italia. Non è un caso che con il cambio di regime tra Giuseppe Conte, benevolo con Pechino, e Mario Draghi, avamposto politico Washington, la rete 5G sia stata oggetto dell’esercizio dei poteri di golden power per evitare che le aziende cinesi partecipassero alla costruzione dell’infrastruttura e probabilmente alla creazione di una pervasiva rete spionistica a base tecnologica. Risolto il problema geopolitico resta però quello ambientalista che naturalmente è anche una questione economica. A causa delle norme introdotte dai governi Prodi e partorite dai vecchi Verdi che facevano parte di quella maggioranza il nostro Paese si ritrova ad essere quello con le più basse frequenze a disposizione per far operare il 5G. In un articolo di Alessandro Da Rold per La Verità si mostra come l’Italia abbia una soglia massima di frequenze pari a 6v/m a fronte di una media europea che oscilla tra i 41 ed i 58v/m e con gli americani che salgono sopra i 60. Perché l’Italia è così indietro? Gli ambientalisti di ieri e oggi credono che le frequenze del 5G possano arrecare danni alla salute nonostante non ci siano evidenze scientifiche che lo dimostrino. Siamo condizionati dunque da superstizioni utilizzate a sfondo politico. Come se non bastasse oltre il danno c’è la beffa. Un mancato aumento delle frequenze comporta la necessità di installare un maggior numero di antenne per far funzionare il 5G con conseguente innalzamento dei livelli di inquinamento prodotto (si stima +20% emissioni Co2). Insomma, per un estremismo politico relativo alla salute, la supposizione che il 5G possa arrecare danni agli esseri umani, gli ambientalisti creano i presupposti affinché si inquini di più.
Ma la questione come si diceva è anche economica poiché maggiori frequenze non significano soltanto una migliore efficienza della rete ma anche un maggior numero di operatori e dunque una più elevata concorrenza. La concorrenza non piace quasi mai alla politica, mentre in tanti settori determina benefici per i consumatori con costi che si riducono e offerte che si pluralizzano. Stupisce in tal senso il conservatorismo mostrato dal ministro leghista Giancarlo Giorgetti, al quale difficilmente si può addossare la croce dell’ambientalismo radicale, che ha di recente dichiarato «Il Mise nel 2018 ho fatto una gara e se cambio adesso, senza una gestione del processo i limiti, non so se faccio una operazione neutra. Io come Mise devo tutelare chi ha partecipato a quel processo». Parole che paiono mostrare una certa inclinazione al protezionismo a favore di coloro che già si sono fatti avanti come operatori del 5G. Ricapitolando: l’Italia è penalizzata e arretrata sull’operatività della rete 5G dalle antiquate norme ambientaliste del passato; gli ambientalisti di oggi non vorrebbero affatto il 5G oppure quelli che lo tollererebbero sarebbero disposti a disseminare nuove antenne pur di non aumentare le frequenze; l’attuale titolare del Mise invece si pone come garante delle imprese che già ci sono e non di quelle che ci potrebbero essere, magari portando vantaggio ai consumatori italiani, e finisce sulla stessa linea degli ambientalisti rispetto al mantenimento delle poche frequenze. In questo quadro c’è ben poco di razionale. Il governo Draghi ha fatto molto bene nel tutelare l’infrastruttura critica dalle minacciose pretese cinesi, riposizionando l’Italia nell’alveo atlantico. Ora si tratta di sfruttare al massimo le potenzialità della nuova rete. Adeguare le frequenze alla media europea significa far funzionare meglio la rete e aprire il mercato a favore dei cittadini e delle imprese che si serviranno del 5G oltre che a ridurre l’inquinamento prodotto dalle antenne che si dovrebbero istallare con il mantenimento dell’attuale status quo. Decidano il ministro Giorgetti e gli ambientalisti moderati di tutti i partiti in quale direzione vogliono andare: verso un conservatorismo debole che penalizza l’Italia rispetto al resto d’Europa o verso il pieno sviluppo della rete?