Il 9 maggio della Russia in difficoltà

A quanti si domandano quale esito stia realmente avendo la guerra scatenata da Vladimir Putin contro l’Ucraina, la risposta può arrivare dall’osservazione di alcuni dettagli su quanto sta accadendo in queste ore in Europa (Russia compresa). A cominciare dalla Piazza Rossa di Mosca, dove va in scena una parata assai ridimensionata per il giorno della commemorazione della capitolazione tedesca dell’8 e 9 maggio 1945: la vigilia della manifestazione è stata tesissima e i preparativi sono stati funestati dal misterioso attentato terroristico che ha interessato la cupola del Cremlino, quando due droni hanno beffato le difese aeree della capitale e sono esplosi sopra il centro del potere putiniano. Le altre manifestazioni nelle città europee russe e dell’Ucraina occupata, nondimeno sono state per lo più annullate per timore di rappresaglie. Il che è già sufficiente a raccontare l’umore che circola tra gli apparati della macchina dello Stato, che svogliatamente portano avanti un rito stanco e che, alla luce della guerra contro i «fratelli» ucraini, inizia a svuotarsi di significato.

Un segnale non meno inquietante arriva dalla lotta fratricida tra le milizie irregolari russe, con il capo della Wagner Yevgheny Prigozhin che ha rivolto parole di fuoco contro il capo delle forze armate e il ministro della difesa russi, minacciando di abbandonare il fronte se non riceverà munizioni. E, quel che è peggio, lo ha annunciato tramite un video tra il grottesco e il triviale dove lo si vede camminare in mezzo ai «suoi» cadaveri stesi a terra ancora sanguinanti.

A lui ha risposto il leader dei paramilitari ceceni Ramzan Kadyrov, che intende scippare a Prigozhin il primato della fedeltà al leader, e ha annunciato l’intenzione di mandare i suoi uomini a compiere massacri intorno a Bakhmut, un villaggio nell’Oblast di Donetsk sul quale tuttavia Mosca non riesce ancora a issare la bandiera della vittoria, nonostante il sacrificio di decine di migliaia di uomini caduti qui, in una battaglia epica (nel suo orrore) che dura ormai da un anno.

E ancora, che dire dell’avvio tragicomico dell’arruolamento forzato dei russi per rimpolpare un esercito demoralizzato, dove le diserzioni aumentano di giorno in giorno. O dell’invio al fronte di mezzi corazzati come i tank T-55, così vecchi che il loro impiego risale al 1948, poco dopo la fine della Seconda guerra mondiale, quando erano l’orgoglio dell’Armata Rossal. E delle caserme di Sebastopoli, in Crimea, che si svuotano nel timore di attacchi ucraini. E del ripiegamento delle truppe russe da Skadovsk, regione di Kherson, con le diminuite attività delle amministrazioni nelle aree occupate per paura di attentati.

Per non parlare degli assassinii e dei sabotaggi nel cuore del tessuto metropolitano russo – a Mosca non meno che a San Pietroburgo, a Belgorod non meno che in Crimea – con azioni che hanno condotto alla morte numerose figure politiche e intellettuali pro-Cremlino, e danneggiato linee ferroviarie, impianti di carburante e strutture della difesa in tutta la Russia europea. Senza citare lo spegnimento della centrale nucleare di Zaporizhzia per timore di scenari «imprevedibili».

Mentre in Occidente Mosca è costretta a osservare la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, che si reca a Kiev scegliendo di festeggiare la concomitante giornata dell’Europa al fianco del presidente ucraino Volodymyr Zelensky, per «riaffermare l’incrollabile sostegno dell’Ue nei confronti dell’Ucraina», ormai a un passo dai negoziati formali per un futuro ingresso tra i Paesi membri. E deve persino ingoiare il divieto di esporre bandiere russe e sovietiche al memoriale sovietico nel Tiergarten, nel centro di Berlino, in quella Germania con cui il Cremlino aveva tessuto un «rapporto speciale» proprio a partire dalla liberazione in quel fatidico 9 maggio 1945 (rapporto evaporato nel giorno in cui è saltato per aria il gasdotto Nord Stream).

Non è tutto: mancano all’appello alcuni pezzi del domino come l’entrata della Finlandia nella Nato, o la Cina che opta per dei distinguo in seno alle Nazioni Unite, marcando la sua distanza dalla politica imperialistica di Mosca con voti di astensione ed equilibrismi diplomatici, che tradiscono una certa prudenza da parte del presidente Xi Jinping circa le sorti del conflitto. E molto altro ancora si potrebbe elencare.

In definitiva, è soprattutto questo lo scenario che ci consegna la guerra di Vladimir Putin a più di un anno dall’inizio della sua sventurata «operazione speciale», il quale oltretutto è costretto a restare in patria in forza di un mandato internazionale che imbarazza in primis i suoi alleati e partner politico-commerciali. Se questo può essere considerato un giorno della vittoria, immaginiamo cosa non lo sia. Certo, la Russia ha le risorse e i numeri per andare avanti ancora a lungo in questa guerra d’attrito, e potrebbe persino consolidare alcune conquiste nel tempo. Ma la domanda sorge spontanea: cui prodest? E soprattutto, fu vera gloria? Ai cannoni l’ardua sentenza.

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