sabato, 23 Novembre 2024
The Holdovers, la recensione del film di Alexander Payne
I migliori classici natalizi sono quelli che suscitano la nostalgia di Natali mai vissuti, forse mai nemmeno esistiti. Non perché raccontino situazioni sociali o familiari particolarmente desiderabili (anzi, talvolta è l’opposto), ma perché sanno allestire un clima confortevole, più vicino all’idealizzazione delle feste – e dell’inverno – che alla realtà delle cose. In quest’atmosfera, essi trovano una purezza che supera ogni retorica, proprio perché divengono archetipi di valori e sentimenti universali, come Il canto di Natale e La vita è meravigliosa. Oppure, riescono a inquadrare l’aura più dolente del periodo natalizio, compresa tra i silenzi ovattati della neve e la solitudine di una notte invernale. Nightmare Before Christmas e il finale di Batman: Il ritorno ne sono un fulgido esempio.
Con queste premesse, non è difficile vedere in The Holdovers di Alexander Payne un nuovo classico per le feste, capace di aggiornare valori antichi alla sensibilità contemporanea, pur mantenendo uno sguardo nostalgico sul passato. I titoli di testa dall’aria vintage non lasciano dubbi: siamo nel dicembre 1970, e una coltre di neve ricopre la Barton Academy, prestigiosa scuola superiore immersa nella natura del New England. Paul Hunham (Paul Giamatti) è un rigido professore di civiltà antiche, solitario e poco amato sia dagli studenti sia dal corpo docenti. Quando la scuola chiude per le vacanze natalizie, Paul paga lo scotto di aver bocciato il figlio di un ricco senatore: il preside lo obbliga infatti a sorvegliare i pochi alunni che non possono tornare a casa durante le feste, e dovranno quindi rimanere nell’istituto. Fra di loro c’è Angus Tully (Dominic Sessa), la cui madre ha improvvisamente deciso di approfittare del Natale per andare in luna di miele col nuovo marito.
Angus e Paul non si sopportano, e si ritrovano da soli quando gli altri studenti hanno l’opportunità di andare a sciare, mentre la madre di Angus è irreperibile per dare il suo consenso alla partenza del figlio. Il loro rapporto si evolve non appena cominciano a scoprire qualcosa di più l’uno dell’altro: insieme a Mary Lamb (Da’Vine Joy Randolph), capo cuoca che ha perso il figlio in Vietnam, i due vivono esperienze che li portano ad avvicinarsi sempre di più, soprattutto quando abbandonano l’istituto per una gita a Boston.
La base di partenza è Vacanze in collegio di Marcel Pagnol, ma Alexander Payne e il direttore della fotografia Eigil Bryld usano raffinate tecniche digitali per simulare la grana degli anni Settanta, restituendo la pastosità avvolgente dell’epoca. Senza dubbio c’è qualcosa di feticistico nel riproporre un’immagine così fortemente legata al suo tempo (vale lo stesso discorso per l’impiego piacevolmente démodé dello zoom), eppure The Holdovers ne fa buon uso: il suo intento è rievocare lo stesso clima intimo e accogliente che di solito associamo al passato, e quindi alla memoria. È nostalgia impressa su pellicola, in altre parole. Non a caso, si tratta davvero di un film d’altri tempi, legato non solo al suo decennio di riferimento – ovvero gli ultimi fuochi della New Hollywood – ma anche a certi cult scolastici degli anni Novanta, soprattutto Scent of a Woman – Profumo di donna.
In effetti, la sceneggiatura di David Hemingson valorizza la sensibilità maschile e il rapporto padre-figlio, all’interno di quella famiglia non tradizionale che, dal nuovo millennio in poi, è ormai divenuta il perno della Hollywood progressista. Paul, Mary e Angus formano un nucleo familiare improvvisato, nato da circostanze ostili e proprio per questo ancora più solidale: incarnano quelle “solitudini [che] si proteggono a vicenda” di cui parlava Rilke, dove l’amore nasce dal riconoscersi come esseri umani, e dal prendersi cura gli uni degli altri. In loro, Angus trova una comprensione che né la madre né il patrigno sono in grado di dargli, con un rapporto basato sullo scambio paritario. Ogni membro del trio contribuisce all’identità dell’altro, che si tratti di compartecipare al dolore di una perdita, di formare il carattere o di offrire supporto.
Alexander Payne mette in scena conflitti e personaggi quasi archetipici (il professore di origini umili e dalla strenua fibra morale, il preside ostile, le famiglie privilegiate, lo studente turbolento ma brillante, la cuoca dal carattere forte…), senza smarrire la sua onestà verso i personaggi maschili, che non ottengono facili ricompense solo perché si trovano al centro della vicenda: The Holdovers, in tal senso, è un film classico plasmato almeno in parte sul nostro presente, soprattutto se consideriamo il garbo e la finezza con cui sono ritratte le difficoltà relazionali di Paul. Come spesso accade nella mentalità americana, l’individualità ha un ruolo basilare, e infatti sarà proprio l’affermazione dei nostri eroi come individui a segnare i passaggi cruciali del film; questo, però, non sacrifica l’importanza di stabilire delle connessioni, che si rinsaldano nelle esperienze condivise, sia comiche sia drammatiche, o comunque introspettive. È in questa unione che The Holdovers riesce a scaldare il cuore, recuperando lo spirito più nobile delle feste: l’idea che, stando insieme, persino gli affanni della vita divengano più dolci.
Paul Giamatti, alla seconda collaborazione con Payne dopo Sideways, centra forse la sua interpretazione più monumentale: ironico e pieno di sfumature, dà vita a un uomo che ha già accettato la sua condizione di sconfitto, e non domanda compassione ma sa imporsi con i suoi princìpi ferrei. Il confronto con Dominic Sessa è la linfa vitale di The Holdovers, anche perché il talentoso esordiente è bravissimo a rispondere colpo su colpo, coagulando sul viso un insieme di sarcasmo, rabbia giovanile, malinconia e solitudine. Paul e Angus riescono a trovarsi proprio quando hanno più bisogno l’uno dell’altro, salvandosi a vicenda: conoscersi è stato il loro regalo di Natale. Ed è un peccato che un film del genere sia stato rinviato dalla distribuzione italiana al 18 gennaio, perché il clima natalizio gli avrebbe solo giovato, e sarebbe stato in linea con il suo spirito caloroso ma non retorico. Se diverrà (come merita) un nuovo classico delle feste, allora sarà per il prossimo Natale.
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