sabato, 23 Novembre 2024
Abuso d’ufficio, Iai: «Abrogare un reato che non ha mai avuto fortunaprocessuale»
Si surriscalda il clima parlamentare sull’annosa questione attorno al reato di abuso d’ufficio, previsto nel codice penale all’art. 323. La maggioranza, infatti, appare, con Lega e FdI intenzionata a non azzerarlo, con il ministro Nordio che fa suo il dossier dell’onorevole Andrea Costa. Infatti, lo scorso 18 maggio proprio il responsabile giustizia di Azione -il partito che fa capo a Carlo Calenda- ha fatto pervenire nelle mani del ministro della giustizia Carlo Nordio, un voluminoso dossier di 165 pagine, piene zeppe di vicende giudiziarie di sindaci e amministratori comunali che dopo lunghi procedimenti penali avevano visto le proprie posizioni assolte o archiviate. Nordio, dal canto suo, è per l’abolizione di fatto della norma, anche per ingraziarsi i sindaci, primi obiettivi della pericolosa (per loro…) normativa, ma sulla sua strada si sono posti di traverso la Lega di Giulia Bongiorno più responsabilmente orientata per una revisione della norma e Fratelli d’Italia, praticamente spaccata tra una frangia progressista, favorevole all’abolizione, ed una conservatrice, cui la vigenza della normativa non dispiacerebbe affatto.
Panorama.it, ha chiesto all’avvocato penalista Ivano Iai, che proprio lo scorso 18 maggio è intervenuto innanzi alla II Commissione Giustizia della Camera dei Deputati in audizione informale, di fare il punto della situazione.
Avvocato Iai, lei è stato audito in Commissione Giustizia della Camera…
«Il contributo offerto alla Commissione è stato di taglio eminentemente pratico, in ragione della professione da me svolta, ma non sono mancati i richiami all’evoluzione normativa che ha caratterizzato nel tempo sia la serie di modifiche al delitto di abuso d’ufficio sia l’introduzione della più recente fattispecie di traffico di influenze illecite, prevista nel codice penale all’art. 346 bis, introdotta nel 2012, con cui il legislatore intese far refluire, in questa fattispecie, le condotte illecite che in precedenza integravano gli estremi del millantato credito».
Non dimentichi che i nostri lettori hanno bisogno di chiarimenti.
«E’ stato proprio questo il senso della mia audizione, cioè chiarire e contestualizzare una materia della quale sentiamo parlare ogni giorno pur non conoscendone i contenuti e i significati. Ho, pertanto, esposto, brevi concetti tratti non dalla prospettiva del legista, né da quella dell’operatore della giustizia (magistratura, avvocatura, dottrina), ma dal lato, più attendista, dell’individuo comune, tenuto a osservare, e prima ancora a conoscere e comprendere, le leggi dello Stato e tra esse, dovendovi prestare particolare attenzione, quelle penali incriminatrici per le quali vige l’inescusabilità connessa alla cosiddetta ignorantia iuris (irrilevante in caso di violazione di precetti che contengono sanzioni)».
Nel testo che ha consegnato a Panorama.it, lei ha allegato una corposa produzione giurisprudenziale.
«La rassegna di giurisprudenza di legittimità proposta in lettura anzitutto alla Commissione Giustizia è servita a far emergere quanto le difficoltà applicative che hanno accompagnato i diversi testi del delitto di abuso d’ufficio nel corso del tempo, non siano del tutto cessate né che la vigente nuova disposizione abbia smesso di suscitare ambiguità interpretative e contrasti tra le Sezioni della Corte Suprema di Cassazione».
Dunque ha dimostrato, sentenze alla mano, le difficoltà interpretative del reato di abuso d’ufficio?
«Sul piano storico occorre prendere atto di una differenza: mentre il delitto di abuso d’ufficio era già preveduto nel codice penale del 1930 come disposizione normativa residuale di chiusura (il principio di tassatività era privo all’epoca di àncora costituzionale), quello di traffico di influenze illecite è apparso nel corpus del codice appena una decina di anni fa, in occasione del primo intervento legislativo in materia di prevenzione della corruzione (è, peraltro, dibattuto che si tratti di fattispecie in continuità con il previgente reato di millantato credito).»
Lei ha insistito sul carattere “etico comportamentale” dei pubblici funzionari.
«Essendo molto più antico l’abuso d’ufficio, una prima riflessione, di carattere generale, riguarda il concetto di etica pubblica e il suo perimetro spesso condizionato dal diritto penale: nel corso del tempo, e della sua applicazione, il delitto di abuso d’ufficio è, di fatto, divenuto un esempio di etica pubblica condizionata dal diritto penale, nel senso che la Pubblica Amministrazione e in generale la collettività hanno subito le conseguenze delle paure dei pubblici funzionari di fronte all’adozione dei provvedimenti esplicativi dei propri poteri».
Da sempre dottrina e avvocatura insistono sulla poca chiarezza della norma dell’abuso d’ufficio…
«Questa sfumatura mi è servita per una seconda riflessione, ovvero il contesto nel quale l’abuso d’ufficio ha potuto trovare applicazione rivelando, proprio a causa della debolezza strutturale e dell’equivocità descrittiva della norma, un’ambigua natura strumentale, spesso usata in funzione di sostituzione morale. Ho evidenziato, in merito, i livelli dell’Amministrazione che ne sono colpiti, con un coinvolgimento preponderante dei funzionari degli Enti locali, ossia delle istituzioni in rapporto più diretto con i cittadini. Non dimentichiamo che di reato di abuso d’ufficio sono indagati e imputati soprattutto in sindaci, cioè coloro che rivestono cariche elettive a più diretto contatto con i cittadini-elettori».
A proposito di amministrazioni locali: tale reato è diventata un’arma in mano alle fazioni politiche…
«Sono convinto che sia l’aspetto che più dovrebbe preoccupare, perché l’abuso d’ufficio si è rivelato l’arma più malevola in mano all’oppositore o all’avversario dentro i consessi istituzionali: molti hanno avuto facile gioco nell’usarla, forti di una presunta neutralità del reato che, grazie alla sua generica formulazione, ha trasformato in strumento politico la segnalazione giudiziaria di un qualsivoglia labiale sconfinamento o eccesso di potere pubblico sospettato nel pubblico agente, generando una miriade di procedimenti penali infondati».
Lei è per l’abrogazione dell’abuso d’ufficio, ci pare di capire!
«Se vi è una ragione per la quale l’art. 323 c.p. debba essere abrogato è per scongiurarne l’uso strumentale – e di conseguenza, il blocco dell’azione amministrativa – in mano a chi in luogo del confronto sul piano politico ricorra a quello, più sconvolgente e insieme demotivante, del grimaldello giudiziario, realmente capace di condizionare non solo le sorti delle persone coinvolte ma anche di intere comunità».
La sua esperienza sul campo sarà ricca…
«Gli esempi sono tanti e variegati: dalle segnalazioni sugli appalti pubblici, per presunti frazionamenti o per le proroghe dei relativi contratti in scadenza, all’adozione di provvedimenti urgenti e agli interventi in materie sensibili come i sussidi di povertà, l’edilizia, l’ambiente: sono tutti casi in cui posso personalmente testimoniare che l’Amministratore onesto, raggiunto dalle contestazioni penali, perde fiducia, entusiasmo, ritmo nell’azione pubblica e spesso anche vigore fisico e psichico, dovendosi occupare della deriva patologica del proprio impegno pubblico e sociale: il procedimento penale».
Poi c’è anche chi continua ad intravedere, in tale norma, una deriva giustizialista e “forcaiola”.
«Si è detto da più parti che alle contestazioni di abuso d’ufficio abbia fatto ricorso strumentale la Magistratura. Non ritengo di condividere questa impostazione e – fatto salvo il biasimo per certe isolate stasi di procedimenti infondati definibili anzitempo – mi sono permesso, invece, di sollecitare i Deputati della Commissione Giustizia alla riflessione su quello che appare più come un commodus discessus deresponsabilizzante: insomma una facile via d’uscita dalle secche interpretative della norma».
Vuole dire che la stessa magistratura si è trovata innanzi a difficoltà interpretative?
«I casi quasi inesistenti di condanne per abuso d’ufficio e i frequenti contrasti tra le singole Sezioni della Corte di cassazione sono la risposta alla sua domanda! E se la Magistratura, intendo non solo quella inquirente ma anche quella giudicante, ha applicato, interpretandola nelle variegate forme espressive che conosciamo, una disposizione più volte modificata a causa delle consapute ambiguità, lo ha dovuto fare, anzitutto, per effetto dell’esistenza della disposizione stessa nel sistema penale sostanziale e processuale. L’espressione che i puristi utilizzano -“hoc iure utimur!”- è ampiamente esplicativa della circostanza che il principio formulato risponde al diritto vigente».
Ecco perché lei insiste per l’abolizione dell’abuso d’ufficio…
«Mi permetto di rilevare che è – ed è sempre stato – nel potere del Parlamento di lasciarla o di espungerla e, in questa seconda prospettiva, non per sugellare il principio secondo il quale la Magistratura non abbia titolo per verificare eventuali illeciti penali nella Pubblica Amministrazione o condotte devianti nell’azione amministrativa, ma perché, banalmente, la disposizione sull’abuso d’ufficio è inutile o, meglio, disutile, e perciò dannosa (è questa la vera accezione di reato di danno!)».
Avvocato, due motivi per cui la norma va abrogata.
«In primo luogo, “abuso d’ufficio” è un elementare sintagma rappresentativo della base minima di condotta del pubblico funzionario contraria ai doveri d’ufficio: questi, infatti, è costantemente tenuto ad adempiere a tali doveri e a non abusarne, sicché, ogni condotta che esondi rispetto a quegli stessi doveri è certamente e strettamente un “abuso”. Ma non per questo, però, la risposta sanzionatoria deve essere necessariamente il ricorso alle disposizioni di extrema ratio, ossia quelle più gravi in assoluto perché ritenute le sole idonee a reprimere la condotta antigiuridica».
A cosa si riferisce?
«Semplicemente alle specifiche disposizioni contenenti illeciti di natura amministrativa e disciplinare (le cui previsioni dettagliate sono disciplinate, tra le altre fonti, nel codice di comportamento dei dipendenti pubblici emanato con d.P.R. 16 aprile 2013, n. 62), nonché per responsabilità erariale in caso di danni allo Stato e agli Enti pubblici».
E il secondo motivo?
«Come risulta anche nella parte preambolare delle proposte di legge, il delitto di abuso d’ufficio non ha mai avuto fortuna processuale, contandosi pochissime condanne e una serie imponente di proscioglimenti processuali o archiviazioni. E, allora, o per tale specifico delitto l’Autorità giudiziaria inquirente è sempre stata incapace di svolgere efficacemente le attività investigative e requirenti (ma è quasi imbarazzante anche solo pensarlo), oppure è il delitto in sé a risentire di un vizio congenito, che non è soltanto quello dell’insufficiente determinatezza e atipicità, ma, più plausibilmente, dell’erroneo contesto in cui è rifluito, quello penale, di extrema ratio».
Poca chiarezza anche in chiave comparatistica.
«L’abuso d’ufficio, presente in alcuni ordinamenti penali stranieri, si porrebbe, quindi, nel nostro, alla stregua di una forzatura destinata a non smettere di confliggere con i principi costituzionali. Le disposizioni penali incriminatrici non sono soltanto precetti sanzionatori da osservarsi obbligatoriamente: debbono essere, soprattutto, disposizioni chiare, accessibili e comprensibili a chiunque (ancorché si tratti di reati c.d. propri) e, soprattutto, inequivoche, per dar modo a chi abbia a trovarsi in situazioni di fatto a esse sovrapponibili sul piano delle responsabilità, di operare una scelta consapevole sulla strada da seguire, sia in un senso, sia nell’altro».
A questo punto lei si schiera con i pubblici amministratori…
«Per una questione di civiltà giuridica, perché la legge incriminatrice deve permettere al pubblico ufficiale o all’incaricato di un pubblico servizio di conoscere inequivocabilmente quali elementi della condotta possano costituire atti contrari al rispetto dei doveri d’ufficio, dimodoché, alla lettura del precetto penale, non possa residuare il dubbio se l’azione che intendano porre in essere sia lecita o illecita».
Viceversa, cosa accadrebbe?
«Se così non fosse – e l’abuso d’ufficio ha dimostrato siffatta inaccettabile ambiguità – la norma penale incriminatrice non solo attenterebbe ai principi costituzionali di legalità e uguaglianza, ma violerebbe direttamente e concretamente i diritti umani fondamentali protetti dall’art. 2 Cost.».
Ivano Iai, sardo di Nule (Ss), classe 1972, allievo di Giovanni Conso alla Luiss di Roma, è avvocato penalista e ricercatore in procedura penale, dopo essersi specializzato in tutela internazionale dei diritti umani fondamentali. Ha difeso personalità quali il Card. Angelo Becciu, il perito informatico Gioacchino Genchi (consulente dell’allora Sostituto procuratore della Repubblica di Catanzaro Luigi de Magistris), il Ministro Danilo Toninelli e magistrati tra cui l’ex Procuratore generale di Catanzaro Otello Lupacchini. Dal 2019 è presidente del Conservatorio di Stato di Sassari ed è stato candidato alle elezioni per il rinnovo del Consiglio Superiore della Magistratura dello scorso 17 gennaio.