lunedì, 6 Gennaio 2025
Adrien Brody, Un onore raccontare gli immigrati
(di Lucia Magi) Nel 2003, a 29 anni e 11 mesi,
Adrien Brody ha fatto storia diventando l’attore più giovane a
vincere l’Oscar come miglior protagonista per Il Pianista di
Roman Polanski. Oggi, è di nuovo in lizza per la statuetta
grazie al suo ruolo in The Brutalist, l’epopea di Brady Corbet,
Leone d’Argento a Venezia tra i favoriti per la notte delle
stelle. La volata verso il 2 marzo inizia domani sera per Brody,
che aspira a sollevare il Golden Globe.
Nel dramma di 3 ore e 35 minuti (con tanto di intervallo),
girato in 70 mm e accompagnato dalle musiche di Daniel Blumberg,
Brody interpreta László Tóth, un architetto ebreo ungherese che
sopravvive all’Olocausto fuggendo negli Stati Uniti. Qui
costruisce palazzine, fino a quando un ricco quanto ottuso
magnate, interpretato da Guy Pearce, gli propone una commissione
che gli cambierà la vita.
“Raccontare l’esperienza degli immigrati è un grande onore
per me. Anche mia madre, la fotografa Sylvia Plachy, è emigrata
negli Stati Uniti negli anni ’50. Lei e i suoi genitori
fuggirono da Budapest durante la rivoluzione ungherese e si
trasferirono a New York per ricominciare da zero. Questo viaggio
di resilienza, speranza e sacrificio è la storia della mia
famiglia. E io sono qui, ben radicato e saldo, grazie ai loro
sforzi e agli ostacoli che hanno superato”, ha detto l’attore
durante una conferenza stampa organizzata dalla Critics Choice
association a Los Angeles.
Il László Tóth del film è un personaggio di fantasia (anche
se ha omonimi davvero esistiti, come il geologo ungherese che
nel 1972 vandalizzò la Pietà di Michelangelo a San Pietro). “Il
motivo per cui Corbet e Mona Fastvold, sua moglie e
co-sceneggiatrice, hanno dovuto inventare un personaggio del
genere, è che molti creativi sono stati uccisi, mentre molti di
quelli che riuscirono a mettersi in salvo in America sono
rimasti anonimi”, argomenta l’attore diventato famoso a fine
anni ’90 con Summer of Sam di Spike Lee e La sottile linea rossa
di Terrence Malick. La corrente architettonica che dà il titolo
al film è stata “trapiantata” negli Stati Uniti proprio da chi
fuggiva dall’Europa dopo la seconda guerra mondiale: “Erano
edifici che imploravano di essere visti, ma le persone che li
realizzavano spesso lottavano per il proprio diritto di
esistere”.
Ecco perché la storia di questo architetto e della sua arte
diventa simbolo della complessità del sogno americano: “Nonostante l’assimilazione, nonostante il loro contributo, gli
immigrati venivano trattati come estranei. È già terribilmente
doloroso lasciare le proprie radici e ricominciare altrove.
Figuriamoci la sensazione di non essere nessuno e di non essere
all’altezza”, riflette Brody, che continua: “Credo che la
bellezza del cinema sia proprio questa: ci fa sedere tutti
insieme in una stanza buia, ricordandoci che dobbiamo essere
vigili e non permettere più intolleranza e oppressione”.
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