Army of the Dead – La recensione del film di Zack Snyder

Army of the Dead – La recensione del film di Zack Snyder
Army of the Dead

Forse non è un caso che Zack Snyder si sia dedicato proprio ad Army of the Dead dopo la delusione di Justice League, quando il completamento della Snyder Cut era ancora un’utopia nella mente dei fan. Il progetto risale infatti a diversi anni fa, e per lui rappresenta una sorta di ritorno alle origini: non solo perché il suo esordio fu effettivamente un film di zombie (L’alba dei morti viventi, remake di Romero), ma perché Army of the Dead gli ha permesso di rifugiarsi in un cinema più autonomo, libero da marchi preesistenti e con meno ingerenze produttive. Netflix, in tal senso, è stata la partner ideale per Snyder, grazie alla libertà che il servizio streaming concede sempre ai cineasti di spicco.

L’idea di base era chiara fin dall’inizio: contaminare il genere heist movie con gli zombie, calando i tòpoi delle grandi rapine in un contesto post-apocalittico. Army of the Dead è molto preciso nel riprodurne i codici narrativi, a partire dal reclutamento della squadra che deve prelevare 300 milioni di dollari da un casinò di Las Vegas, nascosti in un caveau all’apparenza impenetrabile. Niente a che vedere con il glamour di Ocean’s Eleven, però: la capitale del gioco d’azzardo è infatti caduta in mano agli zombie dopo un sanguinoso incidente che vediamo nel prologo, frutto del solito esperimento militare. Snyder imbastisce così uno slow burning di suspense e ironia per raccontare l’origine della catastrofe, prefigurando quell’alternanza di toni che caratterizzerà tutto il film: un pastiche di azione, horror, heist movie, commedia e persino melodramma, dato che il protagonista Scott Ward (Dave Bautista) accetta la missione per riscattare i suoi errori con la figlia Kate (Ella Purnell).

Cinque generi, insomma, che cercano di convivere in un singolo film. Nulla di impossibile (Del Toro ci è riuscito bene in Hellboy II, giusto per fare un esempio), ma Snyder non è adatto a reggere l’impegno. Il suo cinema conosce solo una magniloquenza dai toni eroici, vicina all’oggettivismo di Ayn Rand: non c’è spazio per l’ironia, né per una simile varietà di registri. Pur insistendo molto sul dramma familiare, i segmenti melò sembrano giustapposti artificiosamente sul resto, con frasi buttate lì senza un’adeguata costruzione emotiva. Un discorso simile riguarda la commedia: gli intermezzi umoristici (molti dei quali affidati al personaggio di Tig Notaro, l’elicotterista Marianne Peters) restano isolati in gag o battute macchinose, mai integrate nel contesto. Snyder non ha i tempi comici per gestire l’ironia, non è quello il suo pane.

Army of the Dead

È però significativo che, di converso, l’alternanza di toni funzioni bene nell’ottima sequenza dei titoli di testa. Snyder è specialista nell’usare i crediti per narrare una storia, sfruttando una combinazione di musica, montaggio e slow motion: in quanto cineasta puramente visivo, i titoli di testa gli permettono di sintetizzare i registri in un racconto d’immagini compatto e incalzante, dove assistiamo alla caduta di Las Vegas e all’introduzione dei personaggi. È qui che Snyder riesce a valorizzare il lato grottesco del film, coerente con l’ambientazione. Las Vegas è il regno dell’edonismo e del kitsch, una città fatta di scenografie posticce, costumi sfavillanti e imitatori di Elvis a buon mercato: sembra quasi naturale che Army of the Dead ne rispecchi la natura artefatta, e quindi sia un pastiche a sua volta.

Certo, sarebbe ingenuo vederci una scelta volontaria. Il film semplicemente non riesce ad amalgamare i suoi generi, si limita ad alternarli o giustapporli. Non stupisce che i momenti più riusciti siano quelli in cui Snyder si muove nel suo habitat, ovvero le spettacolari scene d’azione che contrappongono umani e zombie, senza i parossismi estetizzanti degli altri suoi film: l’occhio del regista – anche direttore della fotografia – si fa più grezzo, evita di frammentare troppo i combattimenti con il montaggio, e gira i dialoghi camera a spalla come in un’opera intimista. È l’approccio giusto per mettere in scena i tormenti di Scott, e intenerisce il coinvolgimento personale di Snyder nella vicenda dell’eroe, ma purtroppo i rapporti e i conflitti rimangono sempre in superficie.

Il problema riguarda anche altri aspetti potenzialmente interessanti. I campi di sfollati ammassati fuori dalle mura di Las Vegas rievocano le condizioni dei migranti al confine meridionale degli Stati Uniti, ma i riferimenti politici vengono ben presto messi da parte, senza approfondirne l’impatto sociale o la relazione con il contesto. Peraltro, un qualche rapporto tra oppressi e oppressori esiste anche entro i confini della città, dominata da una casta di zombie senzienti (gli alpha) che governano sui classici non-morti romeriani (gli shambler). L’idea di un’evoluzione dei morti viventi non è nuova, e rimanda sia a Richard Matheson sia allo stesso Romero, che l’aveva messa in pratica tra Day of the Dead e Land of the Dead. In quest’ultimo, il leader degli zombie era una sorta di eroe proletario che guidava il suo popolo verso il sol dell’avvenire, mentre lo Zeus di Army of the Dead – il capo dei non-morti, che ha il potere di trasformare gli umani in alpha – adotta un’iconografia cavalleresca e si preoccupa di garantirsi un erede. Intuizioni valide, ma trascurate: nel mettere insieme tanti elementi, la sceneggiatura non ne approfondisce nessuno, e anche i risvolti da heist movie subiscono un’eccessiva semplificazione. Il resto oscilla tra personaggi ben definiti (la Coyote di Nora Arnezeder) e altri più anonimi o stereotipati, in linea con i numerosi generi che il film tenta di replicare.

L’uscita è attesa per il 21 maggio su Netflix
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