mercoledì, 27 Novembre 2024
Aviazione, crescono i voli ma gli aeroporti non reggono i ritmi
Dopo due anni di crisi il comparto dell’aviazione commerciale si sta riprendendo rapidamente. Ma mentre sulla crescita della domanda non ci sono dubbi, altrettanto non si può dire a proposito dell’organizzazione degli aeroporti e sull’offerta dei voli. Con il quasi azzeramento dei collegamenti causato dalla pandemia e le successive previsioni catastrofiche (e per fortuna sbagliate) che vedevano la ripresa soltanto dal 2023, sono state prepensionate due generazioni di piloti, di assistenti di volo e con questi anche gli specialisti aeroportuali come addetti di rampa, ai servizi d’imbarco e sicurezza, alla gestione bagagli eccetera. Figure professionali specializzate che nella quasi maggioranza dei casi non si formano con un corso di pochi mesi poiché operano in un contesto complesso, sovente con notevoli assunzioni di responsabilità. Ci vogliono mesi per formare un rampista e ci vogliono almeno tre anni per addestrare un pilota.
Contemporaneamente ci troviamo in un periodo nel quale si assiste a un notevole aumento dei costi, dal carburante alle forniture di ogni genere, ma nel quale si vogliono a tutti i costi mantenere i margini di guadagno per rispondere alle aspettative degli azionisti, soprattutto dopo due anni di profondo rosso. Ecco, allora, che richiamare in fretta il personale diventa complicato e si creano facilmente disservizi ai passeggeri finendo per far pagare loro le decisioni. Come è accaduto recentemente con i ritardi nei voli dagli aeroporti del Sud Italia nell’ultimo mese, ed anche all’aeroporto Marco Polo di Venezia, dove in una giornata di partenze la fila per fare i controlli ha raggiunto una lunghezza da primato, seppure risoltasi nel giro di poco tempo. Sul piano occupazionale le proposte di lavoro ci sono, ma a scoraggiare i lavoratori sono i contratti temporanei e le paghe da apprendisti, così anche chi accetta dopo brevi periodi rassegna le dimissioni, mentre i professionisti più esperti e pagati vengono sovente invitati a lasciare il posto incentivando la loro uscita volontaria. Se poi si considera che in aeroporto si lavora su turni estesi, difficilmente chi riceve continue richieste di cambiamento dei propri orari di servizio lavora in modo sereno. E pensare che l’Italia, con l’applicazione della cassa integrazione e degli ammortizzatori sociali ha mitigato l’effetto post-pandemia, mentre in altre nazioni, dove però gli stipendi sono più alti, il numero di chi è rimasto a casa è più alto.
Iata, l’associazione internazionale dei vettori, ha calcolato che tra il febbraio 2020 e il settembre 2021 sono stati persi 2,25 milioni di posti di lavoro nell’intero comparto. L’aviazione è un settore nel quale le normative impongono un numero preciso di figure professionali competenti e formate, la cui mancanza causa disservizi quando non problemi alla sicurezza. Un esempio, purtroppo negativo, sono stati gli scali di Amsterdam Schipol e quello di Bruxelles. In Olanda il 20 giugno si sono verificate lunghe code ai controlli e agli imbarchi, la cancellazione di alcuni voli e ritardi nella gestione dei bagagli. A Bruxelles, dove era in corso lo sciopero generale dei lavoratori, non sono mancati momenti di tensione tra passeggeri e i pochi operatori rimasti al lavoro. Non sono soltanto i sindacati di categoria a denunciare che a comandare oggi non è la qualità del servizio e neppure il mercato del trasporto aereo, ma la finanza delle società di gestione. Lo abbiamo visto per Malpensa, con il Comune di Milano a impedire la riapertura del Terminal 2 perché farlo costerebbe sei milioni di euro a Sea, e a Londra Heathrow con la Baa, che ha chiesto ai vettori di ridurre il numero dei voli dai Terminal 2 e 3. Di conseguenza c’è da aspettarsi anche una prossima riduzione dei collegamenti aerei e un aumento del prezzo dei biglietti favorito dal costo del cherosene, oggi aumentato, e delle quote dei servizi di handling. Esiste un’alternativa, tornare a considerare gli aeroporti degli approdi necessari e non delle aziende, e laddove possibile semplificarne il funzionamento come già avviene negli Usa e in altre parti del mondo.
Si pensa al green ma il problema la qualità della formazione del personale
Dal 19 al 21 giugno a Doha (Qatar) si è svolta la conferenza annuale della Iata, durante la quale si è posta attenzione ad alcuni temi di carattere globale come la standardizzazione dei metodi d’imbarco delle batterie al litio, la cui domanda di trasporto è cresciuta del 30% in un anno, la necessità di aumentare la produzione di carburante sostenibile (Saf) per raggiungere l’obiettivo di zero emissioni entro il 2050 e i metodi per aggirare il blocco delle rotte sulla Russia. Nulla purtroppo che riguardi il personale di volo e di terra, quando invece si assiste a un passaggio generazionale giudicato da molti professionisti troppo rapido tra i vecchi comandanti – mandati in pensione durante la pandemia – e i giovani che sono subentrati al loro posto. Di fatto si stanno registrando un numero crescente di incidenti che, seppure fortunatamente non gravi, evidenziano una carenza nella gestione del fattore umano. La storia dell’aviazione ha già ampiamente dimostrato come la tecnologia sia fondamentale per la sicurezza, ma anche che questa non possa prescindere dalle competenze degli operatori. Non a caso da circa un anno l’autorità aeronautica europea (Easa) ha introdotto nella formazione dei piloti una nuova materia definita “Ksa” da Knowledge, Skills and Attitudes, ovvero conoscenze, abilità e atteggiamento. Si tratta di un nuovo approccio teorico che mira a insegnare ai piloti competenze vitali che non erano precedentemente affrontate dalle materie tecniche tradizionali. Si potrebbe definire in modo semplificato come un corso di “buon senso” senza un esame ufficiale ma i cui risultati sono valutati presso le scuole. Il provvedimento si è reso necessario poiché con la necessità dei vettori di far entrare in servizio nuovi piloti riducendo i costi è stato dimostrato che circa il 50% dei neo piloti non possedeva le competenze sufficienti per l’impiego e quindi non superava le valutazioni per entrare in servizio. Ciò era dovuto all’impiego massivo degli esami a “scelta multipla” senza più colloquio con l’esaminatore, privilegiando l’apprendimento meccanico alla comprensione. Dalle analisi degli incidenti recenti è emerso che gli errori dell’equipaggio, in particolare la mancanza o la scarsa applicazione delle competenze non tecniche, sono una delle cause primarie. Non soltanto: sta emergendo che anche il personale tecnico di terra tende a mostrare le medesime carenze, ed ecco quindi che torna a essere primaria una formazione che non sia soltanto nozionistica. Ma che giocoforza richiede tempo, qualità e costanza per essere svolta e divenire efficace.