domenica, 26 Gennaio 2025
Black Widow, la recensione
Forse non tutti ricordano che, fra i molti potenziali cinecomic dei primi anni Duemila, c’era anche un film su Vedova Nera. Doveva dirigerlo David Hayter, reduce dai copioni dei primi due X-Men, quando Hollywood aveva appena scoperto il giacimento aureo dei supereroi Marvel. Il Marvel Cinematic Universe non esisteva, quindi la sceneggiatura di Hayter era slegata da scenari narrativi più ampi, se non di carattere storico: la sua Natasha Romanoff avrebbe affrontato le conseguenze della caduta dell’Unione Sovietica, in un clima da post-Guerra Fredda come molte spy story dell’epoca. Alla fine, però, non se ne fece nulla. I flop di BloodRayne, Ultraviolet e Æon Flux erano troppo freschi, e Hollywood pensava che il pubblico non fosse interessato a film d’azione con protagoniste femminili.
Tale premessa ci fa capire quanto sia mutato il contesto nell’arco di quindici anni. Il movimento MeToo ha condizionato lo “sguardo” dell’industria cinematografica, gli studios hanno abbracciato la woke culture (più per convenienza che per reale trasporto), e gli spazi della rappresentazione si sono allargati: le eroine d’azione incassano centinaia di milioni di dollari, e l’avventura non è più un feudo maschile. Da questo punto di vista, Black Widow sembra arrivare fuori tempo massimo, soprattutto se consideriamo che la Vedova Nera di Scarlett Johansson è stata introdotta undici anni fa (Iron Man 2 è del 2010), e che Natasha è morta eroicamente in Avengers: Endgame. Eppure, proprio alla luce di quella tragica fine, il film trova una maggiore ragion d’essere, poiché la consapevolezza del suo futuro sacrificio ne impreziosisce ulteriormente la parabola umana.
È chiaro che i tempi sono cambiati, e non solo in termini di Zeitgeist. Black Widow è infatti l’ennesima testimonianza di un cinema sempre più seriale, sempre più votato alle logiche del franchise. Non a caso, è un’operazione di retro-continuity: torniamo nel 2016 per scoprire cos’è successo a Natasha dopo la sua defezione dagli Avengers, rea di aver tradito la fazione di Tony Stark per aiutare Cap e Bucky. Ovviamente è impossibile capire ogni passaggio, se non si conoscono “le puntate precedenti”. Il paradosso, però, è che il film rievoca il passato per dare una chiusura al percorso di Natasha e alla sua eredità nel presente. In fuga dalle autorità americane, l’eroina riprende contatti con Yelena, sua sorella non biologica, che ha bisogno di lei per smantellare una volta per tutte la Red Room, centro di addestramento e condizionamento delle Vedove Nere. A loro si aggiungono Red Guardian e Melina, i genitori adottivi delle due ragazze quand’erano agenti sotto copertura in Ohio, ma devono vedersela con il misterioso Taskmaster: un formidabile avversario che può replicare i movimenti di chiunque (Avengers compresi), e guida l’attacco delle Vedove Nere.
Il principale riferimento cinematografico – almeno per due terzi del film – è la saga di Bourne, pur senza averne il cinismo né l’asciuttezza espositiva. A ben vedere, però, Black Widow segue il retaggio di Captain America: The Winter Soldier, forse il cinecomic più “politico” (passatemi il termine) dei Marvel Studios. Anche qui c’è una combinazione di spionaggio, azione e fantascienza, e anche qui l’avventura getta uno sguardo sulla contemporaneità. Il modo in cui la Red Room manipola le reclute involontarie è una forma estremizzata del controllo che il biopotere vuole esercitare sul corpo femminile, togliendo alle donne il diritto ad autodeterminarsi. Lo vediamo di continuo nel nostro presente, e la Red Room ne diviene un palese simbolo. Certo, i Marvel Studios sono sempre un po’ timidi rispetto alle implicazioni geopolitiche dei temi trattati: come l’Hydra era una cellula indipendente dai nazisti in Captain America: Il primo Vendicatore, qui la Red Room agisce in modo autonomo dal governo russo. Meglio evitare le polemiche sul nascere.
Comunque, le mire del potere sul corpo femminile sono cruciali nella sceneggiatura di Eric Pearson, da un soggetto di Jac Schaeffer e Ned Benson. Non è un caso che alcuni dialoghi siano molto espliciti in proposito: persino certi vecchi “tabù” sociali, in tempi di liberazione post-MeToo e femminismo di quarta ondata, possono trovare spazio in un film Marvel. I tempi sono davvero cambiati, e quindi anche il concetto di famiglia si allontana sempre di più dai principi tradizionali, fondati su legami biologici o giuridici. Le due famiglie di Natasha sono “acquisite”, ma non per questo meno unite (anzi, il fatto che entrambe siano un accorpamento di solitudini, con individui spesso isolati per la loro eccezionalità, le rende ancora più salde). Anche Taskmaster – la cui memoria eidetica meritava forse maggior attenzione – rientra nello stesso discorso, ed è organico tanto alla trama quanto al percorso individuale di Natasha.
Nel complesso è un film ben costruito, diretto con mano sicura da Cate Shortland, che sembra aver goduto di maggior libertà nelle scene intimiste che nell’azione. Queste ultime sono molto convenzionali, e diventano più interessanti solo quando coinvolgono il sopracitato Taskmaster, anche se spesso forzano la sospensione dell’incredulità fino all’eccesso (essendo Natasha priva di superpoteri). Scarlett Johansson però ha il merito di crederci fino in fondo, mentre Rachel Weisz, David Harbour e Florence Pugh sono un corollario di gran classe che talvolta le ruba i riflettori: Yelena, in particolare, ha tutta la grinta e il sarcasmo della sorella minore, e il suo rapporto con Natasha vive momenti di dolce conflittualità.
Anche in virtù della loro storia, Black Widow è uno dei capitoli più drammatici del Marvel Cinematic Universe, e porta a compimento l’emancipazione di un’eroina che all’inizio era solo una comprimaria di lusso (nonché un corpo “ipersessualizzato”, come ha dichiarato l’attrice in un’intervista). Questo ritorno al passato ci permette di comprendere appieno il suo dramma interiore, e rende ancora più toccante il suo sacrificio in Endgame. Le ripercussioni sul futuro del MCU, come capirete guardando il film, sono appena iniziate.